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Recensione: "Liberi di morire. Le ragioni dell'eutanasia", di Derek Humphry (Eleuthera, 2007)
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Articolo di Chiara Lalli
24 maggio 2007 0:00
 
Per molti il ricordo di Derek Humphry è legato ad un manuale contenente le indicazioni per suicidarsi (Eutanasia: uscita di sicurezza, 1992). Sebbene questa sia una visiona caricaturale, è pur vero che la battaglia a favore della libertà del morire implica anche la trattazione del "come" morire. E in uno Stato che si oppone all'idea di legalizzare l'eutanasia i cittadini sono abbandonati a loro stessi anche nella ricerca dei mezzi pratici. Humphry ha così descritto vari modi per procurarsi la morte, oltre a sostenere le ragioni della libertà del morire. Una libertà che è da intendersi principalmente come assenza di coercizione legale 1 : uno Stato dovrebbe impedire legalmente il ricorso all'eutanasia e per quali ragioni? Nel tentativo di fornire una risposta si intrecciano inevitabilmente aspetti intimi e personali e aspetti pubblici; e non si possono eludere temi fondamentali quali il fondamento della legittimità e l'estensione dell'azione dello Stato e i confini della libertà individuale, l'eventualità di includere il diritto a morire tra i diritti fondamentali e la difficile conciliazione di valori tanto distanti come l'indisponibilità della propria esistenza e la libertà di disporne - questione tanto più rilevante quanto più spazio viene concesso alle considerazioni morali nel dibattito politico.

Cofondatore della Hemlock Society (1980) oggi ribattezzata End of Life Choices (2003), per una prudenza terminologica ai limiti dell'ipocrisia, Humphry torna a parlare di eutanasia con Liberi di morire.

La prima parte del libro è dedicata a una panoramica delle legislazione nel mondo sulle decisioni di fine vita, con particolare riferimento al suicidio assistito. Una vera e propria ragnatela normativa rischiosa per chi non sappia orientarvisi. "Istintivamente un gran numero di persone ritiene che il suicidio e il suicidio assistito siano atti di libertà individuale così intangibili da presumere che non siano vietati dalla legge. Questo errore ha causato problemi con la giustizia a un sacco di gente" (p. 29). Se infatti il suicidio non è più un reato, e le legislazioni ove sia ancora considerato tale generalmente non vengono applicate, fornire assistenza al suicidio rimane un reato nella maggior parte dei Paesi: le accuse si delineano come concorso in omicidio o omicidio del consenziente. L'assenza di una normativa specifica e chiara a proposito delle decisioni di fine vita spesso solleva problemi (basti pensare al procedimento avviato nei confronti di Mario Riccio, il medico che ha scollegato il respiratore meccanico di Piergiorgio Welby e lo ha sedato, secondo le richieste di Welby stesso. Di Welby parla a lungo Silvio Viale nella prefazione).

Le eccezioni al considerare illegale aiutare qualcuno a morire sono soltanto quattro: lo Stato dell'Oregon (dal 1997 è legale il suicidio assistito da un medico); la Svizzera (dal 1941 è legale il suicidio assistito); il Belgio (dal 2002 permette l'eutanasia, pur non essendo stata definita alcuna procedura); i Paesi Bassi (l'eutanasia volontaria e il suicidio assistito da un medico sono legali dall'aprile 2002, ma di fatto tollerati dai tribunali dal 1984).

Le legislazioni sono rigide e rigorose, e soltanto la Svizzera accetta di assistere malati stranieri (o meglio, solo una delle associazioni svizzere che aiutano a morire i pazienti, Dignitas: sono molte le persone provenienti da tutto il mondo che le chiedono di essere aiutati a morire).

Quanto accaduto in Oregon è molto interessante: l'Oregon Death With Dignity Act (2001) ha scatenato l'opposizione del governo federale. Il procuratore generale John Ashcroft ha emanato una direttiva che di fatto smantellava la legge vigente, approvata per due volte dai cittadini dell'Oregon. L'intromissione federale è stata considerata inammissibile e la protesta ha avuto la meglio nelle aule dei tribunali. Il primo grado (2002) ha dato ragione a chi intendeva annullare la direttiva, anche se i ricorsi sono andati avanti per tre anni senza che si arrivasse ad una conclusione definitiva. La ribellione di uno Stato contro il giogo federale ha infuso coraggio ad altri Stati propensi a legalizzare il suicidio assistito (California, Hawaii, Vermont solo per fare qualche esempio), ma finora nessuno è stato in grado di cambiare le leggi in direzione liberale.

Addirittura si è temuto che il monopolio repubblicano del Senato potesse riesumare una legge, la Pain Relief Promotion Act, che avrebbe consentito agli agenti della Drug Enforcement Administration (DEA) di investigare sui medici sospettati di avere aiutato i propri pazienti a morire, rischiando fino a 20 anni di reclusione. La legge dell'Oregon sarebbe stata spazzata via. "Solo la confusione che regnava ai tempi del tentato impeachment di Clinton per l'affare Lewinsky ha impedito che nel 2000 la legge passasse: non c'è stato abbastanza tempo. Grazie Monica!" (p. 68).

Anche in altri Paesi la spinta liberalizzatrice non ha avuto abbastanza vigore per garantire ai cittadini la tutela legale del diritto a morire. In Australia le immense distanze che di frequente separano medici e pazienti hanno favorito i movimenti a sostegno del diritto di morire.

"Molte famiglie si interessarono all'eutanasia perché costrette a prendersi cura delle persone che stavano per morire e ad affrontare in prima persona le laceranti difficoltà di una situazione del genere" (p. 37). Solo per sette mesi nel Northern Territory l'eutanasia e il suicidio volontario sono stati legali, prima che il parlamento federale non abrogasse la legge nel 1997. Oggi la legge continua ad essere restrittiva e la scelta di morire, come in tutti i Paesi con una legislazione restrittiva, è relegata nella clandestinità.

Tuttavia, secondo Humphry, c'è un segnale incoraggiante: nel 2002 l'Unione europea ha commissionato una ricerca che coinvolgeva 34 Stati dell'Asia centrale e dell'Europa, Stati Uniti e Russia. È stato domandato loro, ad esempio, se il termine "suicidio assistito" fosse usato nel proprio Stato o se esistessero sanzioni penali. Emerge uno scarto abbastanza rilevante tra l'esistenza di sanzioni per il suicidio assistito e l'applicazione di tali sanzioni (23 "sì" all'esistenza di sanzioni penali contro il suicidio assistito e soltanto 6 "sì" alla loro applicazione).

La Commissione per gli affari sociali, la salute e la famiglia ha approvato un rapporto in cui invitava gli Stati europei a prendere in considerazione la depenalizzazione dell'eutanasia.

Il documento, redatto dallo svizzero Dick Marty, muove da una premessa fondamentale: "Nessuno ha il diritto di imporre ai malati terminali e a chi sta per morire l'obbligo di continuare a vivere tra sofferenze insopportabili e angoscia se essi stessi hanno espresso il determinato desiderio di porvi fine" (p. 40).

Si invitavano poi gli Stati membri a non girarsi dall'altra parte di fronte ad una questione tanto difficile ma sentita dai cittadini, quale quella di anticipare la propria morte. Il documento invitava inoltre a considerare la possibilità di una legislazione permissiva, alla luce dei dibattiti pubblici e di una analisi comparativa delle diverse legislazioni.

L'invito non è stato ascoltato e il malcontento di parte della società civile ignorato. Nonostante la richiesta esplicita e a volte provocatoria di alcuni malati riporti violentemente il dibattito all'attenzione pubblica, le possibilità di cambiamento sembrano stagnare in un limbo decisionale. Questa ignavia rischia di trascurare, tra gli altri, un elemento: quello della cosiddetta eutanasia clandestina, che Humphry tralascia e che è invece un risvolto preoccupante e di grande importanza. Fenomeno invadente e difficile da delineare nelle modalità e nei numeri. In Italia è stata respinta addirittura la richiesta di una indagine conoscitiva al proposito, quasi che fosse imbarazzante anche compiere una ricognizione del fenomeno clandestinità o che la conoscenza fosse considerata di per sé pericolosa o necessariamente la base per una futura liberalizzazione. È doveroso ricordare quanto la Commissione Remmelink 2 ha riscontrato all'inizio degli anni '90 in Olanda: non solo che le morti provocate o anticipate erano numerose, ma che molte di queste erano decise dai medici e non richieste dai pazienti. In presenza di una così grave violazione della libera volontà dei pazienti, l'Olanda ha scelto di percorrere una strada nitida e coraggiosa 3 : permettere ai medici di aiutare i pazienti a morire, ma in presenza di una condizione assolutamente necessaria - l'accertamento del volere del paziente.

Secondo Derek Humphry il trascorrere degli anni aiuterà la causa della libertà del morire. "Con lo scomparire di quelle generazioni che hanno attraversato le barbarie del ventesimo secolo, le sue due guerre mondiali, le bombe atomiche, i genocidi, le devastazioni ambientali e i suoi stili di vita irrispettosi dell'ambiente, le nuove generazioni saranno capaci di guardare alle decisioni sulla morte con più buon senso e compassione" (p. 41).

Sebbene la sua previsione sia abbastanza convincente, l'attuale rigurgito conservatore nostrano in tema di libertà e diritti civili incute una certa preoccupazione per il futuro della legislazione italiana. Quanto Humphry dice sul presente potrebbe insomma perdurare più a lungo delle sue rosee aspettative (Humphry indica il 2050 o il 2075 come una possibile data di quel "mondo nuovo" ove gli uomini saranno liberi di morire) o distanziare l'Italia da una tendenza liberalizzatrice: "Siamo troppo limitati dal potere residuo della religione, dalla pseudo moralità dei media, ingigantita dalle loro soverchianti risorse, e dall'atteggiamento da struzzo di istituzioni come le associazioni mediche, le università e i partiti politici. "Mantenere lo statu quo" è il loro grido di battaglia!" (p. 42).

Una questione difficile e centrale è quella che riguarda l'enigma del suicidio depressivo, come Humphry intitola il terzo capitolo. Il dare sostegno alle richieste di morire dei pazienti psichiatrici è ulteriormente complicato dalla difficoltà di valutare la loro capacità di esprimere una volontà e l'effettiva possibilità di guarigione. Esistono circostanze in cui ci troviamo di fronte alla stessa incurabilità delle malattie terminali organiche? È difficile negare che la sofferenza dei depressi può essere tanto intensa e tanto irrimediabile da poter essere paragonata a quella dei malati organici terminali (ammettendo che la depressione sia riducibile ad una malattia organica in quanto malattia del cervello e che alcune depressioni siano incurabili e irreversibili, la vicinanza è quanto mai prossima). "Alcune persone con problemi mentali gravi e protratti nel tempo mi hanno detto che invidiano i malati terminali. Loro almeno sanno che le sofferenze avranno presto fine, mentre i patimenti dei malati mentali continuano finché il corpo rimane in salute (o finché non si uccidono)" (p. 54). Ma è innegabile che il fattore "depressione" (o la presenza di altre malattie psichiatriche e neurologiche gravi) aggiunga un ulteriore elemento di difficoltà. Ciò non basta, sottolinea Humphry opportunamente, a sbarazzarsi del problema della richiesta di morire che viene da un paziente depresso.

Un'altra questione riguarda la stessa espressione "suicidio assistito". "Quand'è che un suicidio non è veramente un suicidio, nel terribile senso convenzionale della parola? Secondo me quando una persona che sta già morendo o che soffre di una malattia incurabile accelera l'inevitabile fine della propria vita per risparmiarsi altro dolore. 'Autoliberazione' o 'suicidio razionale' sembrano essere nomi migliori per questo gesto, senza contare i moltissimi eufemismi che sono nati sul tema (aiuto a morire, morte accelerata, morte assistita. per citarne solo alcuni)" (p. 49).

In una parola: autodistruzione contro autoliberazione. Uno scenario fortemente in contrasto con il pensiero religioso che attribuisce la responsabilità e la proprietà delle nostre vite alla divinità. Se il nostro corpo e la nostra esistenza sono un dono, non dovremmo essere liberi di disporne; se la divinità ha deciso di farci vivere, non dovremmo opporci anticipando la nostra morte. Modi diversi per insinuare elementi profondamente irrazionali nel dibattito politico. Tant'è che Humphry, con una fulminea rapidità, propone l'obiezione che sgretola questo impedimento divino: "La libertà di pensiero gliene dà tutto il diritto. Ma ogni persona ragionevole concorderà che non potrà mai esserci unanimità su questo argomento" (p. 50). E proprio questo è il cuore di ogni argomentazione contraria all'imposizione di un unico punto di vista: la libertà di pensiero, la libertà di scelta in assenza di danni a terzi, quella libertà individuale che nello specifico assume le fattezze della possibilità di rifiutare qualunque trattamento medico (anche qualora l'esito di un tale rifiuto sia la morte certa) e la non universalità delle credenza religiose. Humphry ha il merito di ricordarlo in più occasioni, con la semplicità disarmante di poche parole ("ogni persona ragionevole concorderà che non potrà mai esserci unanimità su questo argomento") che potrebbero diventare una "regola" secondo la quale in assenza di unanimità su un certo argomento non dovrebbe esserci imposizione di una Verità. A patto, è bene aggiungere, che non vi siano danni per altre persone (nel caso in cui io decido di interrompere la mia esistenza non provoco danni a terzi e dovrei godere della libertà di farlo).

La parte più toccante del libro è il racconto di come Humpry ha aiutato a morire la giovane moglie Jean e il suo patrigno e amico Arthur. Ma anche la parte ove emerge con maggior prepotenza il doveroso rispetto per una richiesta atroce ma legittima: in presenza di una malattia incurabile, di una condanna a sofferenze terribili e senza possibilità di sollievo e, soprattutto, in presenza di una volontà lucida e razionale, come ignorare la supplica di anticipare una morte comunque ineluttabile e imminente? Nessuno vorrebbe sentirsi fare domande simili. "Vorrei non aver dovuto aiutare queste due persone a morire" (p. 53, il corsivo è mio), dice Humprhy. Esaudire una richiesta tanto drammatica ha però una unica alternativa: voltarsi dall'altra parte, e aggiungere la propria indifferenza al tormento di chi è già torturato alla paura e dalla malattia. Cullandosi anche nell'illusione che non agire non abbia conseguenze morali.

Esiste anche un risvolto consolatorio e tranquillizzante dell'avere la possibilità di ricorrere ad una morte anticipata, ricorda Humphry, e questo aspetto è troppo spesso sottovalutato o ignorato. Il conforto di avere una via di fuga, si potrebbe definire. Humphry racconta la reazione di un novantenne molto malato che aveva chiesto di morire e che era riuscito a procurarsi dei farmaci letali. Quando Humphry gli chiese quando avesse intenzione di morire, "Non sono ancora pronto ad andarmene", mi rispose. 'Adesso che ho tutto quello che mi serve posso resistere ancora un po''" (p. 99).

È di estremo interesse la ricostruzione dettagliata della storia di Jack Kevorkian, oggi in prigione, il medico che ha aiutato a morire oltre cento persone e che ha cercato, in modo provocatorio, di animare il dibattito e di scuotere le coscienze dei medici dalla più semplice scelta di non immischiarsi. Conosciuto come il "dottor Morte" ha avuto senza dubbio un effetto squassante. Non c'è concordia nel giudicarlo positivo o controproducente alla causa dell'estrema libertà di scelta. Ma è difficile non essere d'accordo con Humphry quando sostiene che il trattamento che è stato riservato a Kevorkian, dagli altri medici prima e dalla giustizia poi, sia eccessivamente punitivo.

Kevorkian è stato condannato per omicidio di secondo grado e trattato come il peggiore dei criminali: gli è stata negata la possibilità di chiedere la libertà condizionale prima di avere scontato 6 anni di carcere, sebbene non ci fosse una ragione di pericolosità sociale; il suo appello è stato ritardato più degli altri detenuti; infine, gli è stata negata l'autorizzazione a rilasciare interviste. Decisione questa grottesca e ingiustificabile, soprattutto se si pensa che "A Timothy McVeigh, il dinamitardo di Oklahoma City, era stato invece permesso di incontrare molto spesso i giornalisti mentre era nel braccio della morte, nonostante la sua aberrante e violenta filosofia terroristica" (p. 78). E, viene da aggiungere a quanto sottolineato da Humphry, nonostante anche i più aspri nemici di Kevorkian debbano fare i conti con almeno una differenza abissale: le persone aiutate a morire da Kevorkian volevano morire; volontà che non apparteneva alle 168 vittime della bomba a Oklahoma City.

Immaginare il futuro è difficile e la strada è senza dubbio lunga. Humphry ricorda un detto del Seicento secondo il quale tutto si avvera, basta avere pazienza, tempo e denaro; e aggiunge un ingrediente che giudica necessario: l'impegno, facendo propria l'osservazione di Margaret Mead sul potere trasformativo di un piccolo gruppo di cittadini. Si potrebbe obiettare a Humphry che non è detto che la trasformazione del mondo avvenga nella direzione da lui auspicata, ovvero quella della libertà. Perché potrebbe avere la meglio il piccolo (o grande) gruppo di cittadini che combatte contro la libertà. Di fatto potrebbe. Dalla parte dei paladini della libertà si può sfoderare una potente arma argomentativa (di per sé non sufficiente alla sua affermazione): ovunque esista libertà i cittadini non sono costretti a compiere una determinata scelta. La garanzia legislativa delle libertà (compresa quella del morire) consegna ai singoli individui le decisioni. Al contrario, l'assenza di libertà cancella le differenze individuali per plasmare le vite su un unico modello. Questa profonda asimmetria tra libertà e coercizione non dovrebbe mai essere dimenticata da parte di uno Stato che voglia ancora definirsi liberale e non paternalista. Per dirla con le parole di Humphry: "La libertà di scegliere come e quando morire, e di avere un aiuto competente per farlo, dovrebbe essere lecita anche se su questo non c'è (e probabilmente non ci sarà mai) un consenso condiviso da parte dell'opinione pubblica. Si stanno per ripetere le stesse aspre controversie che hanno accompagnato le battaglie degli anni Settanta e Ottanta a favore del testamento biologico. Tutto questo non accadrebbe se ognuno rispettasse le idee degli altri" (p. 117). La libertà di scegliere dovrebbe essere lecita anche in assenza di accordo assoluto e universale sulle singole scelte: questo è il cuore di ogni democrazia liberale. Il riferimento al testamento biologico non può non far pensare, con molta amarezza, alle battaglie attuali in Italia sulla possibilità di formulare direttive anticipate sui trattamenti sanitari: battaglie che non esisterebbero se ognuno rispettasse le idee degli altri. Battaglie che intendono affermare "la più estrema delle libertà civili, il diritto di scegliere quando e come morire" (p. 126).

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[1] La "libertà" come spazio di non intervento dello Stato è indubbiamente il significato più rilevante, anche se nel caso di alcuni malati si pone anche un problema di libertà come "capacità di" (possibilità pratica di realizzare uno scopo: prendere un farmaco per morire, ad esempio).
[2] La commissione ha redatto il cosiddetto rapporto Remmelink: Medical Decisions About the End of Life. I. Report of the Committee to Study the Medical Practice Concerning Euthanasia. II. The Study for the Committee on Medical Practice Concerning Euthanasia, The Hague, September 19, 1991.
[3] È bene specificare che l'esistenza dell'eutanasia clandestina non è un argomento concessivo a favore della sua legalizzazione ("dal momento che il fenomeno x esiste, allora tanto vale renderlo legale"). Una volta sgombrato il campo da ostacoli morali, l'esistenza dell'eutanasia clandestina e le modalità con cui viene praticata possono fornire indicazioni utili per arginare e prevenire eventuali abusi.

Derek Humphry, Liberi di morire. Le ragioni dell'eutanasia, Elèuthera, 2007, pp. 128.

(Pubblicato con il consenso dell'autore dal Bollettino telematico di filosofia politica)
 
 
 
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Articolo di Chiara Lalli
24 maggio 2007 0:00
 
Per molti il ricordo di Derek Humphry è legato ad un manuale contenente le indicazioni per suicidarsi (Eutanasia: uscita di sicurezza, 1992). Sebbene questa sia una visiona caricaturale, è pur vero che la battaglia a favore della libertà del morire implica anche la trattazione del "come" morire. E in uno Stato che si oppone all'idea di legalizzare l'eutanasia i cittadini sono abbandonati a loro stessi anche nella ricerca dei mezzi pratici. Humphry ha così descritto vari modi per procurarsi la morte, oltre a sostenere le ragioni della libertà del morire. Una libertà che è da intendersi principalmente come assenza di coercizione legale 1 : uno Stato dovrebbe impedire legalmente il ricorso all'eutanasia e per quali ragioni? Nel tentativo di fornire una risposta si intrecciano inevitabilmente aspetti intimi e personali e aspetti pubblici; e non si possono eludere temi fondamentali quali il fondamento della legittimità e l'estensione dell'azione dello Stato e i confini della libertà individuale, l'eventualità di includere il diritto a morire tra i diritti fondamentali e la difficile conciliazione di valori tanto distanti come l'indisponibilità della propria esistenza e la libertà di disporne - questione tanto più rilevante quanto più spazio viene concesso alle considerazioni morali nel dibattito politico.

Cofondatore della Hemlock Society (1980) oggi ribattezzata End of Life Choices (2003), per una prudenza terminologica ai limiti dell'ipocrisia, Humphry torna a parlare di eutanasia con Liberi di morire.

La prima parte del libro è dedicata a una panoramica delle legislazione nel mondo sulle decisioni di fine vita, con particolare riferimento al suicidio assistito. Una vera e propria ragnatela normativa rischiosa per chi non sappia orientarvisi. "Istintivamente un gran numero di persone ritiene che il suicidio e il suicidio assistito siano atti di libertà individuale così intangibili da presumere che non siano vietati dalla legge. Questo errore ha causato problemi con la giustizia a un sacco di gente" (p. 29). Se infatti il suicidio non è più un reato, e le legislazioni ove sia ancora considerato tale generalmente non vengono applicate, fornire assistenza al suicidio rimane un reato nella maggior parte dei Paesi: le accuse si delineano come concorso in omicidio o omicidio del consenziente. L'assenza di una normativa specifica e chiara a proposito delle decisioni di fine vita spesso solleva problemi (basti pensare al procedimento avviato nei confronti di Mario Riccio, il medico che ha scollegato il respiratore meccanico di Piergiorgio Welby e lo ha sedato, secondo le richieste di Welby stesso. Di Welby parla a lungo Silvio Viale nella prefazione).

Le eccezioni al considerare illegale aiutare qualcuno a morire sono soltanto quattro: lo Stato dell'Oregon (dal 1997 è legale il suicidio assistito da un medico); la Svizzera (dal 1941 è legale il suicidio assistito); il Belgio (dal 2002 permette l'eutanasia, pur non essendo stata definita alcuna procedura); i Paesi Bassi (l'eutanasia volontaria e il suicidio assistito da un medico sono legali dall'aprile 2002, ma di fatto tollerati dai tribunali dal 1984).

Le legislazioni sono rigide e rigorose, e soltanto la Svizzera accetta di assistere malati stranieri (o meglio, solo una delle associazioni svizzere che aiutano a morire i pazienti, Dignitas: sono molte le persone provenienti da tutto il mondo che le chiedono di essere aiutati a morire).

Quanto accaduto in Oregon è molto interessante: l'Oregon Death With Dignity Act (2001) ha scatenato l'opposizione del governo federale. Il procuratore generale John Ashcroft ha emanato una direttiva che di fatto smantellava la legge vigente, approvata per due volte dai cittadini dell'Oregon. L'intromissione federale è stata considerata inammissibile e la protesta ha avuto la meglio nelle aule dei tribunali. Il primo grado (2002) ha dato ragione a chi intendeva annullare la direttiva, anche se i ricorsi sono andati avanti per tre anni senza che si arrivasse ad una conclusione definitiva. La ribellione di uno Stato contro il giogo federale ha infuso coraggio ad altri Stati propensi a legalizzare il suicidio assistito (California, Hawaii, Vermont solo per fare qualche esempio), ma finora nessuno è stato in grado di cambiare le leggi in direzione liberale.

Addirittura si è temuto che il monopolio repubblicano del Senato potesse riesumare una legge, la Pain Relief Promotion Act, che avrebbe consentito agli agenti della Drug Enforcement Administration (DEA) di investigare sui medici sospettati di avere aiutato i propri pazienti a morire, rischiando fino a 20 anni di reclusione. La legge dell'Oregon sarebbe stata spazzata via. "Solo la confusione che regnava ai tempi del tentato impeachment di Clinton per l'affare Lewinsky ha impedito che nel 2000 la legge passasse: non c'è stato abbastanza tempo. Grazie Monica!" (p. 68).

Anche in altri Paesi la spinta liberalizzatrice non ha avuto abbastanza vigore per garantire ai cittadini la tutela legale del diritto a morire. In Australia le immense distanze che di frequente separano medici e pazienti hanno favorito i movimenti a sostegno del diritto di morire.

"Molte famiglie si interessarono all'eutanasia perché costrette a prendersi cura delle persone che stavano per morire e ad affrontare in prima persona le laceranti difficoltà di una situazione del genere" (p. 37). Solo per sette mesi nel Northern Territory l'eutanasia e il suicidio volontario sono stati legali, prima che il parlamento federale non abrogasse la legge nel 1997. Oggi la legge continua ad essere restrittiva e la scelta di morire, come in tutti i Paesi con una legislazione restrittiva, è relegata nella clandestinità.

Tuttavia, secondo Humphry, c'è un segnale incoraggiante: nel 2002 l'Unione europea ha commissionato una ricerca che coinvolgeva 34 Stati dell'Asia centrale e dell'Europa, Stati Uniti e Russia. È stato domandato loro, ad esempio, se il termine "suicidio assistito" fosse usato nel proprio Stato o se esistessero sanzioni penali. Emerge uno scarto abbastanza rilevante tra l'esistenza di sanzioni per il suicidio assistito e l'applicazione di tali sanzioni (23 "sì" all'esistenza di sanzioni penali contro il suicidio assistito e soltanto 6 "sì" alla loro applicazione).

La Commissione per gli affari sociali, la salute e la famiglia ha approvato un rapporto in cui invitava gli Stati europei a prendere in considerazione la depenalizzazione dell'eutanasia.

Il documento, redatto dallo svizzero Dick Marty, muove da una premessa fondamentale: "Nessuno ha il diritto di imporre ai malati terminali e a chi sta per morire l'obbligo di continuare a vivere tra sofferenze insopportabili e angoscia se essi stessi hanno espresso il determinato desiderio di porvi fine" (p. 40).

Si invitavano poi gli Stati membri a non girarsi dall'altra parte di fronte ad una questione tanto difficile ma sentita dai cittadini, quale quella di anticipare la propria morte. Il documento invitava inoltre a considerare la possibilità di una legislazione permissiva, alla luce dei dibattiti pubblici e di una analisi comparativa delle diverse legislazioni.

L'invito non è stato ascoltato e il malcontento di parte della società civile ignorato. Nonostante la richiesta esplicita e a volte provocatoria di alcuni malati riporti violentemente il dibattito all'attenzione pubblica, le possibilità di cambiamento sembrano stagnare in un limbo decisionale. Questa ignavia rischia di trascurare, tra gli altri, un elemento: quello della cosiddetta eutanasia clandestina, che Humphry tralascia e che è invece un risvolto preoccupante e di grande importanza. Fenomeno invadente e difficile da delineare nelle modalità e nei numeri. In Italia è stata respinta addirittura la richiesta di una indagine conoscitiva al proposito, quasi che fosse imbarazzante anche compiere una ricognizione del fenomeno clandestinità o che la conoscenza fosse considerata di per sé pericolosa o necessariamente la base per una futura liberalizzazione. È doveroso ricordare quanto la Commissione Remmelink 2 ha riscontrato all'inizio degli anni '90 in Olanda: non solo che le morti provocate o anticipate erano numerose, ma che molte di queste erano decise dai medici e non richieste dai pazienti. In presenza di una così grave violazione della libera volontà dei pazienti, l'Olanda ha scelto di percorrere una strada nitida e coraggiosa 3 : permettere ai medici di aiutare i pazienti a morire, ma in presenza di una condizione assolutamente necessaria - l'accertamento del volere del paziente.

Secondo Derek Humphry il trascorrere degli anni aiuterà la causa della libertà del morire. "Con lo scomparire di quelle generazioni che hanno attraversato le barbarie del ventesimo secolo, le sue due guerre mondiali, le bombe atomiche, i genocidi, le devastazioni ambientali e i suoi stili di vita irrispettosi dell'ambiente, le nuove generazioni saranno capaci di guardare alle decisioni sulla morte con più buon senso e compassione" (p. 41).

Sebbene la sua previsione sia abbastanza convincente, l'attuale rigurgito conservatore nostrano in tema di libertà e diritti civili incute una certa preoccupazione per il futuro della legislazione italiana. Quanto Humphry dice sul presente potrebbe insomma perdurare più a lungo delle sue rosee aspettative (Humphry indica il 2050 o il 2075 come una possibile data di quel "mondo nuovo" ove gli uomini saranno liberi di morire) o distanziare l'Italia da una tendenza liberalizzatrice: "Siamo troppo limitati dal potere residuo della religione, dalla pseudo moralità dei media, ingigantita dalle loro soverchianti risorse, e dall'atteggiamento da struzzo di istituzioni come le associazioni mediche, le università e i partiti politici. "Mantenere lo statu quo" è il loro grido di battaglia!" (p. 42).

Una questione difficile e centrale è quella che riguarda l'enigma del suicidio depressivo, come Humphry intitola il terzo capitolo. Il dare sostegno alle richieste di morire dei pazienti psichiatrici è ulteriormente complicato dalla difficoltà di valutare la loro capacità di esprimere una volontà e l'effettiva possibilità di guarigione. Esistono circostanze in cui ci troviamo di fronte alla stessa incurabilità delle malattie terminali organiche? È difficile negare che la sofferenza dei depressi può essere tanto intensa e tanto irrimediabile da poter essere paragonata a quella dei malati organici terminali (ammettendo che la depressione sia riducibile ad una malattia organica in quanto malattia del cervello e che alcune depressioni siano incurabili e irreversibili, la vicinanza è quanto mai prossima). "Alcune persone con problemi mentali gravi e protratti nel tempo mi hanno detto che invidiano i malati terminali. Loro almeno sanno che le sofferenze avranno presto fine, mentre i patimenti dei malati mentali continuano finché il corpo rimane in salute (o finché non si uccidono)" (p. 54). Ma è innegabile che il fattore "depressione" (o la presenza di altre malattie psichiatriche e neurologiche gravi) aggiunga un ulteriore elemento di difficoltà. Ciò non basta, sottolinea Humphry opportunamente, a sbarazzarsi del problema della richiesta di morire che viene da un paziente depresso.

Un'altra questione riguarda la stessa espressione "suicidio assistito". "Quand'è che un suicidio non è veramente un suicidio, nel terribile senso convenzionale della parola? Secondo me quando una persona che sta già morendo o che soffre di una malattia incurabile accelera l'inevitabile fine della propria vita per risparmiarsi altro dolore. 'Autoliberazione' o 'suicidio razionale' sembrano essere nomi migliori per questo gesto, senza contare i moltissimi eufemismi che sono nati sul tema (aiuto a morire, morte accelerata, morte assistita. per citarne solo alcuni)" (p. 49).

In una parola: autodistruzione contro autoliberazione. Uno scenario fortemente in contrasto con il pensiero religioso che attribuisce la responsabilità e la proprietà delle nostre vite alla divinità. Se il nostro corpo e la nostra esistenza sono un dono, non dovremmo essere liberi di disporne; se la divinità ha deciso di farci vivere, non dovremmo opporci anticipando la nostra morte. Modi diversi per insinuare elementi profondamente irrazionali nel dibattito politico. Tant'è che Humphry, con una fulminea rapidità, propone l'obiezione che sgretola questo impedimento divino: "La libertà di pensiero gliene dà tutto il diritto. Ma ogni persona ragionevole concorderà che non potrà mai esserci unanimità su questo argomento" (p. 50). E proprio questo è il cuore di ogni argomentazione contraria all'imposizione di un unico punto di vista: la libertà di pensiero, la libertà di scelta in assenza di danni a terzi, quella libertà individuale che nello specifico assume le fattezze della possibilità di rifiutare qualunque trattamento medico (anche qualora l'esito di un tale rifiuto sia la morte certa) e la non universalità delle credenza religiose. Humphry ha il merito di ricordarlo in più occasioni, con la semplicità disarmante di poche parole ("ogni persona ragionevole concorderà che non potrà mai esserci unanimità su questo argomento") che potrebbero diventare una "regola" secondo la quale in assenza di unanimità su un certo argomento non dovrebbe esserci imposizione di una Verità. A patto, è bene aggiungere, che non vi siano danni per altre persone (nel caso in cui io decido di interrompere la mia esistenza non provoco danni a terzi e dovrei godere della libertà di farlo).

La parte più toccante del libro è il racconto di come Humpry ha aiutato a morire la giovane moglie Jean e il suo patrigno e amico Arthur. Ma anche la parte ove emerge con maggior prepotenza il doveroso rispetto per una richiesta atroce ma legittima: in presenza di una malattia incurabile, di una condanna a sofferenze terribili e senza possibilità di sollievo e, soprattutto, in presenza di una volontà lucida e razionale, come ignorare la supplica di anticipare una morte comunque ineluttabile e imminente? Nessuno vorrebbe sentirsi fare domande simili. "Vorrei non aver dovuto aiutare queste due persone a morire" (p. 53, il corsivo è mio), dice Humprhy. Esaudire una richiesta tanto drammatica ha però una unica alternativa: voltarsi dall'altra parte, e aggiungere la propria indifferenza al tormento di chi è già torturato alla paura e dalla malattia. Cullandosi anche nell'illusione che non agire non abbia conseguenze morali.

Esiste anche un risvolto consolatorio e tranquillizzante dell'avere la possibilità di ricorrere ad una morte anticipata, ricorda Humphry, e questo aspetto è troppo spesso sottovalutato o ignorato. Il conforto di avere una via di fuga, si potrebbe definire. Humphry racconta la reazione di un novantenne molto malato che aveva chiesto di morire e che era riuscito a procurarsi dei farmaci letali. Quando Humphry gli chiese quando avesse intenzione di morire, "Non sono ancora pronto ad andarmene", mi rispose. 'Adesso che ho tutto quello che mi serve posso resistere ancora un po''" (p. 99).

È di estremo interesse la ricostruzione dettagliata della storia di Jack Kevorkian, oggi in prigione, il medico che ha aiutato a morire oltre cento persone e che ha cercato, in modo provocatorio, di animare il dibattito e di scuotere le coscienze dei medici dalla più semplice scelta di non immischiarsi. Conosciuto come il "dottor Morte" ha avuto senza dubbio un effetto squassante. Non c'è concordia nel giudicarlo positivo o controproducente alla causa dell'estrema libertà di scelta. Ma è difficile non essere d'accordo con Humphry quando sostiene che il trattamento che è stato riservato a Kevorkian, dagli altri medici prima e dalla giustizia poi, sia eccessivamente punitivo.

Kevorkian è stato condannato per omicidio di secondo grado e trattato come il peggiore dei criminali: gli è stata negata la possibilità di chiedere la libertà condizionale prima di avere scontato 6 anni di carcere, sebbene non ci fosse una ragione di pericolosità sociale; il suo appello è stato ritardato più degli altri detenuti; infine, gli è stata negata l'autorizzazione a rilasciare interviste. Decisione questa grottesca e ingiustificabile, soprattutto se si pensa che "A Timothy McVeigh, il dinamitardo di Oklahoma City, era stato invece permesso di incontrare molto spesso i giornalisti mentre era nel braccio della morte, nonostante la sua aberrante e violenta filosofia terroristica" (p. 78). E, viene da aggiungere a quanto sottolineato da Humphry, nonostante anche i più aspri nemici di Kevorkian debbano fare i conti con almeno una differenza abissale: le persone aiutate a morire da Kevorkian volevano morire; volontà che non apparteneva alle 168 vittime della bomba a Oklahoma City.

Immaginare il futuro è difficile e la strada è senza dubbio lunga. Humphry ricorda un detto del Seicento secondo il quale tutto si avvera, basta avere pazienza, tempo e denaro; e aggiunge un ingrediente che giudica necessario: l'impegno, facendo propria l'osservazione di Margaret Mead sul potere trasformativo di un piccolo gruppo di cittadini. Si potrebbe obiettare a Humphry che non è detto che la trasformazione del mondo avvenga nella direzione da lui auspicata, ovvero quella della libertà. Perché potrebbe avere la meglio il piccolo (o grande) gruppo di cittadini che combatte contro la libertà. Di fatto potrebbe. Dalla parte dei paladini della libertà si può sfoderare una potente arma argomentativa (di per sé non sufficiente alla sua affermazione): ovunque esista libertà i cittadini non sono costretti a compiere una determinata scelta. La garanzia legislativa delle libertà (compresa quella del morire) consegna ai singoli individui le decisioni. Al contrario, l'assenza di libertà cancella le differenze individuali per plasmare le vite su un unico modello. Questa profonda asimmetria tra libertà e coercizione non dovrebbe mai essere dimenticata da parte di uno Stato che voglia ancora definirsi liberale e non paternalista. Per dirla con le parole di Humphry: "La libertà di scegliere come e quando morire, e di avere un aiuto competente per farlo, dovrebbe essere lecita anche se su questo non c'è (e probabilmente non ci sarà mai) un consenso condiviso da parte dell'opinione pubblica. Si stanno per ripetere le stesse aspre controversie che hanno accompagnato le battaglie degli anni Settanta e Ottanta a favore del testamento biologico. Tutto questo non accadrebbe se ognuno rispettasse le idee degli altri" (p. 117). La libertà di scegliere dovrebbe essere lecita anche in assenza di accordo assoluto e universale sulle singole scelte: questo è il cuore di ogni democrazia liberale. Il riferimento al testamento biologico non può non far pensare, con molta amarezza, alle battaglie attuali in Italia sulla possibilità di formulare direttive anticipate sui trattamenti sanitari: battaglie che non esisterebbero se ognuno rispettasse le idee degli altri. Battaglie che intendono affermare "la più estrema delle libertà civili, il diritto di scegliere quando e come morire" (p. 126).

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[1] La "libertà" come spazio di non intervento dello Stato è indubbiamente il significato più rilevante, anche se nel caso di alcuni malati si pone anche un problema di libertà come "capacità di" (possibilità pratica di realizzare uno scopo: prendere un farmaco per morire, ad esempio).
[2] La commissione ha redatto il cosiddetto rapporto Remmelink: Medical Decisions About the End of Life. I. Report of the Committee to Study the Medical Practice Concerning Euthanasia. II. The Study for the Committee on Medical Practice Concerning Euthanasia, The Hague, September 19, 1991.
[3] È bene specificare che l'esistenza dell'eutanasia clandestina non è un argomento concessivo a favore della sua legalizzazione ("dal momento che il fenomeno x esiste, allora tanto vale renderlo legale"). Una volta sgombrato il campo da ostacoli morali, l'esistenza dell'eutanasia clandestina e le modalità con cui viene praticata possono fornire indicazioni utili per arginare e prevenire eventuali abusi.

Derek Humphry, Liberi di morire. Le ragioni dell'eutanasia, Elèuthera, 2007, pp. 128.

(Pubblicato con il consenso dell'autore dal Bollettino telematico di filosofia politica)
 
 
 
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