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Una giornata di ordinaria follia per fare un tampone nel Lazio di Zingaretti
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Articolo di Redazione
3 ottobre 2020 10:52
 
«Mamma non torno a pranzo e forse nemmeno a cena, qua famo notte». La voce, romana e sconsolata, è quella di un ragazzo con la testa che ciondola sul volante della Smart e il cellulare pigiato sull’orecchio. La sua, come centinaia di altre auto, è incolonnata in un tetris immobile. Giovani, anziani, disabili, famiglie con bambini. Migliaia di persone in attesa di un tampone che, nel migliore dei casi, arriverà dopo sei ore trascorse sui sedili. Il drive-in di viale Palmiro Togliatti, periferia est della Capitale, è uno dei 21 allestiti dalla Regione Lazio nella provincia di Roma, ricavato in fretta e furia all’interno del centro carni della città, tra camion frigo che fanno la spola e un’insegna che avvisa: «Qui si noleggiano coltelli e camici da lavoro».

Si contano due sole postazioni per fare i tamponi, a fronte di un’impennata di contagi in una Regione che si prepara all’emergenza. Il drive-in è aperto dalle 9 alle 19, ma alle 17.30 si chiudono i cancelli per smaltire le macchine già entrate nella struttura. Per avere la certezza di fare il test, bisogna giocare d’anticipo e ipotecare la giornata. «Quando arrivo la mattina alle 7 per iniziare il turno c’è già una fila incredibile di auto. Non so da che ora si piazzino lì, forse all’alba», racconta un’infermiera che raccoglie le impegnative degli aspiranti tamponati.

Quella per fare il test è un’odissea, senza esagerazioni. Noi ci presentiamo all’orario di apertura. Sono le 9 del mattino: una coda di due chilometri si snoda lungo tutte le vie limitrofe. Si sta fermi per ore, senza muoversi di un metro. Sotto il sole, i motori accesi e le facce scocciate. Ogni tanto dalla corsia opposta si ferma qualche auto: «Ma perché siete tutti in fila? Che succede?». Qualcuno pensa a una campagna sconti o a un grande evento. «Buona fortuna!»

C’è chi telefona e chi dorme. L’attesa è snervante, ma nessuno vuole mollare. Anche perché non ci sono alternative. Il Lazio del segretario Pd Nicola Zingaretti, al contrario di regioni come Lombardia, Veneto, Liguria e Piemonte, non ammette la possibilità di fare i tamponi nei laboratori privati. Una decisione inspiegabile per molti. Nelle strutture convenzionate si possono effettuare sierologici e test rapidi. Questi ultimi, gli stessi che si somministrano negli aeroporti, sono stati autorizzati da pochi giorni a livello regionale.
L’amministrazione di Zingaretti ha chiesto alle Asl di privilegiare i rapidi rispetto ai tamponi classici, da utilizzare in una seconda fase: quella della conferma diagnostica. Mentre nelle scuole arriveranno i salivari. Ma al momento i test rapidi sono introvabili nei laboratori privati. Non se ne parlerà prima di metà ottobre, fanno sapere alcuni degli studi più importanti della Capitale. Quindi tutti in macchina, a far la coda.

Al drive-in di via Togliatti vengono respinte le persone che si presentano a piedi. «Qui si fa il test solo in auto, ce lo impone un’ordinanza. Senza macchina bisogna andare all’ospedale San Giovanni», spiega l’infermiere a una pensionata incredula. Il San Giovanni è a dieci chilometri da lì. Arrivederci e grazie. 

Una beffa, se si pensa che qui le auto procedono a passo d’uomo. Solo per entrare nella pancia del centro carni, presidiato da un paio di vigilantes, ci vorranno più di quattro ore. E non è finita. All’ingresso gli infermieri controllano la ricetta del medico curante, necessaria per accedere al test. Si può fare il molecolare classico o il l’antigenico rapido, per chi rientra da Paesi a rischio come Grecia e Spagna. Ma, a giudicare dalle facce degli automobilisti, non c’è aria di controllo post-vacanza. 

Una volta dentro, la coda si sdoppia in due corsie segnalate da birilli e transenne. Altre due ore di attesa, e passa la paura. Le persone cominciano ad aprire le portiere per sgranchirsi le gambe. Qualche coraggioso, dopo una mattinata di resistenza eroica, usa i quattro bagni chimici messi a disposizione dall’Asl. Altri scattano foto e video, almeno finché non se ne accorgono i paramedici.

All’interno del drive-in ci sono solo due postazioni che effettuano tamponi. Due alla volta, per migliaia di utenti. Accanto al tavolino con le provette, quattro infermieri. Si cambiano i guanti e si disinfettano continuamente. Bardati e volenterosi. Comunque troppo pochi per fronteggiare un esercito di automobili destinato a ingrossarsi nelle prossime settimane. L’inverno è alle porte e i timori di una seconda ondata si sprecano. D’altronde i contagi nel Lazio sono in aumento costante, sale la pressione sugli ospedali e da oggi è in vigore l’obbligo dell’uso delle mascherine anche all’aperto.

Non mancano momenti di tensione al drive-in. Lo raccontano gli infermieri, professionali e pure simpatici. Parlano di automobilisti che perdono la pazienza e alzano i toni. Mentre siamo lì, invece, regnano ordine e silenzio. Educazione mista a rassegnazione di chi aspetta il proprio turno. Da un’autoradio parte “Piazza Grande” di Lucio Dalla, qualcuno comincia a canticchiare. Una botta di vita inaspettata dopo ore di letargo. «Signori, per favore spegnete i motori altrimenti ci affumicate», chiede un paramedico.

Sono passate sei ore. Una giornata di lavoro più stressante che in ufficio. È arrivato il nostro turno. «Signore, apra la bocca prego. Ora il bastoncino entrerà nella narice. Abbiamo fatto, grazie. Le risposte arriveranno via mail tra tre o quattro giorni, ma potrebbe volerci di più se c’è molto afflusso». 

Tempo qualche secondo e siamo fuori, quasi disorientati. Un’ordinaria giornata di follia per fare un tampone ai tempi del Covid. Un segnale inquietante in vista dei prossimi mesi. Per dirla con le parole del sindaco di Bergamo Giorgio Gori: «Se arrivasse una seconda ondata scopriremmo di avere quasi le stesse debolezze che avevamo in primavera». Questa volta, però, resteremmo in auto anziché a casa.

(articolo di Marco Fattorini su Linkiesta del 03/10/2020)

 
 
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