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Il malato non è solo la sua malattia
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Articolo di Redazione
27 giugno 2022 20:01
 
Fino a quando il dolore non verrà considerato non un effetto collaterale, ma una patologia, autonoma e distinta, specifica da analizzare, curare e contrastare con protocolli adeguati, la condizione di arretratezza non verrà superata. Pubblichiamo l’intervento del prof. Luigi Manconi durante l’evento “Tutto nella norma: il diritto di vivere come tutti”, promosso da Fondazione Roche e Formiche.

Grazie di questo invito e di questa opportunità di una riflessione pubblica su temi così cruciali e così delicati. Credo di essere stato invitato in ragione della mia totale estraneità alla materia e alla mia totale incompetenza di questioni mediche. Forse non è stata tuttavia una scelta così inopportuna. Non tocca a me certo dirlo, lo valuterete voi, perché il mio approccio sarà appunto non specialistico, ma per un verso collegato alla mia personale esperienza diretta. Peraltro verso quella che è una riflessione generale sulle questioni che chi mi ha introdotto ha chiamato delle persone fragili.

Tuttavia, mi limiterò a tre considerazioni che tentano di collegare un quadro generale a quello che è proprio il cuore dell’incontro e degli incontri che la Fondazione Roche e Formiche hanno voluto promuovere.
Parto dalla prima considerazione. Gli ho dato un titolo molto semplice: Io sono cieco ma io non sono la mia cecità. Io sono cieco, ma io non sono la mia malattia. Io sono cieco, ma sono anche un sociologo, il padre di tre figli, un tifoso della Juve, un appassionato cultore della musica leggera italiana e della letteratura poliziesca. Potrei dire anche un sassarese, uno che ha avuto una vita movimentata e disordinata, che ha fatto molte esperienze, che ha insegnato all’università e che è stato parlamentare. Io sono tutte queste cose. Dunque, io non sono un cieco, sono tutte queste cose con un’aggiunta: la mia cecità. Attenzione: questa aggiunta potrebbe essere lieve o pesantissima. Dipende dai connotati della mia patologia e dipende da me. Dipende, però, anche dal sistema e qui il sistema significa due cose: il sistema delle relazioni sociali e il sistema delle istituzioni sanitarie.

Guardate questa affermazione: io sono cieco, ma io non sono la mia patologia, ha delle conseguenze enormi e ha persino dei riflessi di natura etica e di natura epistemologica. Si pensi solo, e mi dispiace non poterne parlare più a lungo, a cosa significa questa affermazione riguardo il tema del diritto e della giustizia. Significa che chi ha commesso un reato, qualunque sia quella fattispecie penale, non è il suo reato, è una persona che ha commesso un reato. Che potrebbe essere gravissimo, che potrebbe avere conseguenze di enorme rilievo, ma quella persona non è riducibile al suo reato, così come io non sono riducibile alla mia cecità. Il motivo, in un caso come nell’altro è semplice: è che ciascuno di noi è più del bene e del male di cui è fatta la sostanza della sua identità. Ciascuno di noi è più del bene e del male di cui è fatto il mio fisico e la mia psiche. Questa è la grande intuizione che filosofi del diritto, filosofi della conoscenza, hanno nei secoli coltivato e che ha portato alla consapevolezza attuale. Ma pensate che questa riflessione è la stessa che spiega perché mai si dica, io aggiungo si debba dire, persone con disabilità.

In questi decenni c’è stata quella che, a mio avviso, è una stucchevole e irritante per molti versi furiosa polemica contro il politicamente corretto, che nasceva probabilmente da alcuni eccessi di questa cultura, ma che ignorava totalmente il fondamento etico e culturale di quella volontà di intervenire sulle parole. Interviene per individuarne l’esattezza quando essa è raggiungibile nel definire stati d’animo, condizioni, circostanze, situazioni, attività. Allora, dire persone con disabilità significa esattamente dire che la persona con disabilità non è riducibile alla sua disabilità. Ho avuto modo di cogliere nella vostra documentazione questa terminologia: persone con malattia rara. Vi scongiuro difendetela questa terminologia. Vi scongiuro utilizzate questo lessico e non cedete alla futilità di chi ritiene che sia un omaggio al politicamente corretto. No, è un omaggio alla verità. Ancor meglio, un omaggio alla conoscenza, cioè alla capacità di dire le cose come esse effettivamente sono.

Seconda considerazione. La intitolerei così: il dolore come patologia. Penso che si possa dire che nel nostro Paese, certo non solo nel nostro Paese, ma in Italia con particolare consistenza, persista una tradizione culturale che ritiene il dolore una sorta di componente necessaria della patologia. Considera il dolore una sorta di effetto collaterale ineludibile e inevitabile della malattia. Certo, grazie al cielo direi, non è più come era decenni fa e secoli fa, quando in certi settori culturali, nelle componenti rilevanti delle confessioni religiose, e soprattutto in quote assai estese della classe medica era diffusa un’interpretazione del dolore come una sorta di via all’ascesi, come uno strumento espiatorio, come qualcosa che doveva risarcire il mondo dei mali dell’individuo e sanzionare l’individuo per il male commesso. Non è più così, fortunatamente, se non in segmenti che voglio considerare assai minoritari, forse irrisori della mentalità collettiva e del senso comune. Ma il superamento di questa concezione cupa e arcaica del dolore come strumento penitenziale non ha scalzato la persistenza di una sorta di fatalismo fatto di comportamenti medici quotidiani, di atteggiamenti delle strutture sanitarie, di sostanziale indifferenza, che non riesce a emanciparsi dall’idea appunto della malattia come luogo del dolore. Come sede dove è inevitabile la diffusione, l’acutizzarsi, il progredire della sofferenza.

Io penso che questo, troppe volte negato e soprattutto troppe volte taciuto, sia un orientamento tuttora visibile nelle nostre società e in quella italiana, aggiungo in particolar modo, e trovo una prova inconfutabile di questo nel fatto che, nonostante indubbi progressi – progressi che mi va molto bene sottolineare e che voglio anche enfatizzare, valorizzare – nonostante tutto questo, lo stato delle medicine palliative in Italia sia tuttora assai arretrato. Il ruolo degli studi relativi nelle facoltà di medicina è ancora assai carente. E infine che nel nostro Paese, e in particolare in una metà del nostro Paese che ancora una volta dobbiamo indicare come quella che va dal centro fino alle isole, la presenza degli hospice e delle strutture per malati terminali sia così esigua, insufficiente, gravemente carente rispetto alle domande e ai bisogni.

Fino a quando il dolore non verrà considerato non un effetto collaterale, ma una patologia, direi autonoma e distinta, specifica da analizzare, curare e contrastare specificatamente con protocolli adeguati, con terapie efficaci, finché quindi il dolore non verrà considerato, permettetemi questa formula così banale, un male in sé, io temo che questa condizione di arretratezza non verrà superata. Vorrei fare una ulteriore riflessione che mi rendo conto è assai delicata e credo anche assai controversa. Questa qualità autonoma, distinta e specifica, della sofferenza fisica determina un’ulteriore conseguenza ed è una conseguenza, a mio avviso, rilevantissima. E il fatto che quella sofferenza fisica è esclusiva di chi la patisce. Quella sofferenza fisica è titolarità privatissima, intimissima del sofferente. Quel dolore fisico è qualcosa di assoluto che appartiene e può appartenere solo a chi ne è vittima.

Io da qui ricavo un’ulteriore motivazione rispetto a quello che considero un punto essenziale, dicevo appunto controverso, ma a mio avviso irrinunciabile: questo connotato assoluto, esclusivo, privatissimo e personalizzatissimo; questa identità piena, intima, tra il dolore e il soggetto che soffre, costituisce, a mio avviso, una delle ragioni fondative del principio dell’autodeterminazione. Proprio perché il dolore è mio e solo mio esso deve essere deciso nel suo sviluppo o nel suo termine, dal soggetto che di quel dolore è titolare e vittima. Sia chiaro, di quel dolore altri possono condividere il patimento, possono porsi come vicini, prossimi, sodali, ma in ultima istanza quel dolore è mio e solo mio. E proprio questo carattere assoluto e personalissimo fonda una delle ragioni essenziali di quel principio determinante in questo campo, perché ha dei riflessi assai importanti sulle questioni di fine vita e che è il principio dell’autodeterminazione.

Terza considerazione: la solitudine del paziente. Qualche decennio fa Norbert Elias pubblicò un libro magnifico. Chi può lo legga perché è un prodotto intellettuale formidabile. Si intitolava, appunto, “La solitudine del morente”, che era anche la solitudine del paziente, era un discorso sulla malattia in Occidente. Sul suo significato, tra il sacro e le società secolarizzate. Mi è venuto in mente pensando a questa categoria di solitudine del pazzo. Non c’è il minimo dubbio che negli ultimi decenni abbiamo assistito a un accelerato processo di privatizzazione e aggiungerei, anche se la parola non è bella, di socializzazione della malattia.

La malattia è questione sempre più privata. Di qui ovviamente non sto pensando alla titolarità delle strutture sanitarie. Sto pensando alla dimensione personale nella quale si vive una malattia. La malattia è questione sempre più privata e sempre più ridotta a una cerchia che tende a restringersi e a ridursi di persone che di affetti. Anche nelle località dove una volta la malattia era un rito sociale e un’esperienza collettiva, questo processo si manifesta in maniera dirompente. La malattia è questione del malato e dei suoi cari più intimi. Credo, temo, che sia un processo inarrestabile destinato a riprodursi e ad acutizzarsi sempre di più. Ecco io temo che questo sia un percorso davvero pericoloso, non semplicemente, se mai fosse semplicemente, per il destino, per la sorte, per la vita e la morte del singolo paziente, ma per l’intera società. È l’intera società che sta relegando la sofferenza e il patimento, appunto la patologia, ad ambiti sempre più ristretti, e circoscritti. Con ciò rinunciando a quel ruolo fondamentale che il legame sociale deve poter svolgere sia nei momenti di euforia che in quelli del dramma. Sia quando c’è una pubblicazione collettiva destinata a un’iniziativa politica, sia quando invece si tratta di accudire chi patisce e assistere chi muore.

Ecco questo processo è un processo a mio avviso assai negativo, che segnala questa sorta di costante e crescente neutralizzazione della società. La società perde valore, perde soggettività, diventa qualcosa di neutro, astratto e allo stesso tempo tecnico. Il problema della sofferenza e della morte rischia di ridursi alla terapia e all’assistenza dei familiari di quel singolo paziente. Credo che questa sia un’esperienza che tutti abbiamo avuto modo di conoscere, ma quello che mi ha colpito e che mi ha indotto a citarla in questa circostanza è il fatto che mi è capitato di frequentare, da paziente e da visitatore, negli ultimi mesi, alcuni ospedali romani. La pandemia ha prodotto una sorta di desertificazione degli ospedali. Non metto minimamente qui in discussione l’opportunità, la necessità di misure di profilassi tese ad evitare il contagio. Non intendo in alcun modo discutere di questo. Assumo anzi come frutto di scelte razionali quello che è accaduto e quello che sta accadendo. Ma io penso che rispetto a ciò che sta accadendo si debbano trovare delle soluzioni.

Oggi entrare in un ospedale romano per visitare un paziente è diventata un’impresa, sottoposta a vincoli, proibizioni, limiti, interdizioni, che, appunto, servono, mi auguro, a impedire il contagio, ma che nei fatti hanno un risultato: ridurre quel paziente a una cartella clinica, ridurre quel paziente a un numero. Tendenzialmente uso una formula forse eccessiva, ridurre il paziente a una cosa nelle mani dei sanitari. La mia non è nemmeno una critica, è un grido di allarme. Ho fatto esperienza di questo, vorrei che se ne tenesse conto anche perché solo se si tiene conto di questo, solo se si evita che il paziente si trovi in una dimensione di totale solitudine, solo in questo caso noi avremmo evitato quello che dicevo, il principale pericolo: ridurre il malato alla sua malattia, inchiodare il paziente alla sua patologia e confonderla con essa. Peggio annullarlo in essa.

(Luigi Manconi durante l’evento “Tutto nella norma: il diritto di vivere come tutti”, promosso da Fondazione Roche e Formiche, pubblicato su Formiche.net del 27/06/2022)
 
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