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Gli embrioni, da uno a uno
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Articolo di Jaime Prats
4 novembre 2009 11:06
 
La fecondazione medicalmente assistita cerca il modo di evitare i parti multipli. L'ultima via della ricerca punta a scegliere il miglior ovulo fecondato dopo averne studiato il metabolismo.
La prima "bimba in provetta", la britannica Louise Brown, è nata il 25 luglio 1978. Dopo di lei si ritiene che siano oltre tre milioni e mezzo i bambini venuti al mondo grazie alle tecniche di riproduzione assistita. Victoria Anna Sanchez, che è nata nella clinica Dexeus, è stata la numero 601 e la prima spagnola. Nella sola Spagna si praticano ogni anno 30.000 cicli di fecondazione in vitro (FIV). 
Dopo tutti questi anni e tutte queste nascite, nessuno è stato ancora capace di risolvere una delle grandi sfide che questa tecnica deve affrontare: evitare i parti multipli. E tutto, in sostanza, dipende da un problema importante. Non esiste nessun metodo non invasivo -senza rischio per l'embrione- che determini con certezza quali attecchiranno dopo essere stati trasferiti nell'utero della madre o che permetta, con criteri oggettivi, di classificarli in funzione della loro qualità. Per questo ci sono vari gruppi di ricerca -uno di questi è diretto dall'Instituto Valenciano de Infertilidad (IVI)- dediti a raggiungere la formula magica. E la chiave, secondo alcuni lavori, si troverebbe nella metabolomica, lo studio del metabolismo degli embrioni.
Ciò non vuol dire che in tutto questo tempo non ci siano stati progressi nella riproduzione assistita. Uno degli esempi più chiari sono i migliori livelli raggiunti nelle quote di successo della FIV, anche se non sono quelle che piacerebbero agli specialisti e soprattutto alle coppie con problemi di fertilità. Le probabilità di restare incinta sono passate dal 15% o al massimo 20% del 1984, data in cui è nata Victoria Anna, al 40% o anche 60% nelle migliori prognosi (genitori giovani, con pochi cicli, con ovuli e spermatozoi di qualità).
Inoltre ci sono dei miglioramenti riguardo alle gestazioni multiple, specialmente per quanto attiene alla riduzione dei parti trigemellari. Nel 2000, il 4% delle nascite dopo una FIV erano tre neonati, mentre nel 2006 la quota era scesa all'1,7%, secondo i dati della Società Spagnola di Fertilità (SEF). 
Tuttavia, la cifra delle gravidanze multiple in Spagna è ancora attorno al 30%, un tasso troppo alto. Che si traduce in maggiori probabilità di complicazioni mediche, sia per la madre sia per i bambini. 
La FIV consiste nel fecondare gli ovuli fuori dall'utero, in provetta. Quanti più ovuli si ottengono per ciclo, più si potranno fecondare e più embrioni potranno essere scelti e trasferiti nella madre. L'ideale sarebbe trasferirne uno solo, ma bisognerebbe poter contare su un metodo che, senza danneggiare l'embrione, permettesse di classificarlo in funzione  della sua capacità d'impianto partendo da criteri oggettivi. In questo modo, con un solo ovulo fecondato si avrebbe un'alta percentuale di probabilità che attecchisca ed evolva in una gravidanza.
Ma per ora non è possibile. In mancanza di un procedimento affidabile, di solito si selezionano vari embrioni da impiantare nell'utero. Così è più facile che almeno uno si sviluppi fino alla fine. La legge spagnola fissa un massimo di tre, sebbene la tendenza di trasferirne due o anche uno stiano dando buoni risultati. I dati della SEF indicano che nel 2006, nel 64% dei casi di FIV erano stati introdotti due embrioni per ciclo.
Però, e questo è il problema, come fare a sapere quali siano i migliori? L'embriologa Montse Boada, direttrice del laboratorio di riproduzione assistita dell'USP Institut Universitari Dexeus, ammette che sotto questo aspetto ci sono stati pochi progressi nell'ultimo decennio: "In pratica siamo migliorati nell'esperienza e nella microscopia".
Per scegliere gli embrioni più sani da impiantare nella madre gli specialisti si avvalgono di quattro parametri, tutti relativi all'aspetto esterno dell'embrione sotto il microscopio. Uno di questi riguarda il ritmo di segmentazione. Il primo giorno, lo zigote, ancora non diviso, deve avere due pronuclei. Nel secondo, l'embrione deve avere quattro cellule -chiamate blastomeri- e nel terzo otto. Se ci sono ritardi nel processo di moltiplicazione cellulare, la previsione d'impianto non è soddisfacente. Come non  va bene se ci sono cellule con forme irregolari e asimmetriche, se si osservano frammenti di citoplasma o se le cellule hanno più di un nucleo. Sono criteri morfologici che, alla fine, in alcuni casi non richiedono di essere intuitivi e soggettivi. Per questo, gli embrioni selezionati non soddisfano sempre le aspettative. Succede che alcuni con previsione non positiva riescano ad annidarsi nell'utero e svilupparsi, oppure può accadere il contrario. 
Questa selezione, basata sulla morfologia, è il procedimento utilizzato nell'80% dei casi se non ci sono fattori a rischio. Nel restante 20%, lo studio di vivibilità embrionale avviene mediante procedimenti invasivi, che hanno degli inconvenienti. 
Quando l'ovulo fecondato ha tre giorni e presenta un aspetto simile a una mora di otto cellule, se ne estrae una per analizzarla e determinare, partendo dai risultati ottenuti, la salute dell'embrione. Ma si tratta di una procedura in cui una mano poco esperta può lesionare l'embrione. "In questo modo, il vantaggio di eliminare l'anomalia si scontra con il trasferimento di un embrione danneggiato", chiarisce Antonio Pellicer, codirettore di IVI. 
Ci sono poi altri inconvenienti. C'è la possibilità che il blastomero selezionato sia l'unico a presentare delle alterazioni, cio' che porterebbe a scartare un embrione perfettamente sano. O il caso contrario, che sfocerebbe in una diagnosi sbagliata. Inoltre, la biopsia è cara, tanto da far raddoppiare il prezzo del procedimento portandolo a 2.000 euro.  
Per questo, gli sforzi sono rivolti a stabilire la salute e la capacità d'impianto degli embrioni senza doverli toccare. Finora, l'opzione più promettente è stata l'analisi del metabolismo dell'ovulo fecondato. L'obiettivo consiste "nell'essere capaci di conoscere ciò che un embrione consuma ed espelle nel terreno di coltura dove si sviluppa nei primi giorni della sua esistenza", spiega il codirettore di IVI. Una volta avuta quest'informazione, che si otterrà tramite una semplice goccia del terreno di coltivazione, si potrebbe determinare quali siano i valori che indicano che un embrione è forte e sano, e quali non riuscirebbero a crescere nell'utero.
Pellicer l'equipara a un'analisi convenzionale. "Se conosciamo i parametri sanguigni del paziente (colesterolo, zucchero, pressione...) e le sue abitudini di consumo (cibo, tabacco, alcol) possiamo farci un'idea se sia sano o no" E i primi risultati indicano che questi studi possono dare informazioni molto valide. "Da un lato risolveremmo i problemi delle biopsie, se poi risultasse tanto specifica da eleminare le anomalie cromosomiche che causano la sindrome di Down o di Turner come i nostri primi dati iniziali suggeriscono, siamo davanti a una tecnica di applicazione necessaria nel futuro immediato". 
Per ora, non c'e' consenso sui metaboliti -le sostanze risultanti dal processo di regolazione cellulare, come il glutammato, il lattato o la alanina -alle quali si deve prestare attenzione per poter valutare la capacità d'attecchimento dell'embrione. 
L'azienda statunitense Molecular Biometrics si dedica in pieno a questo compito. Di fatto, ha in corso vari esperimenti clinici, in alcuni dei quali ha partecipato sia la Dexeus sia alcune cliniche di IVI. "L'obiettivo dovrebbe essere quello di trovare 15-20 metaboliti determinanti nell'impianto", dichiara Carlos Simon, responsabile della Fondazione di ricerca dell'IVI. Ancora la meta non pare essere dietro l'angolo. "E' un campo molto promettente, ma ancora acerbo", dice Montse Boada.
Oltre a quest'azienda c'è un'altra impresa spagnola che punta decisamente in quella direzione. E' Embryonics, una società creata la scorsa estate, una partecipata di IVI, che si dedica esclusivamente alla diagnosi di embrioni basata sulla metabolomica. "Siamo molto vicini a identificare embrioni con alterazioni cromosomiche a partire dalla sindrome di Down", spiega Simon. L'analisi di quest'alterazione è il primo obiettivo che l'azienda si è data.
Esistono altri percorsi che mirano a diagnosticare la qualità degli embrioni in forme non invasive. Uno di questi è la proteomica, che consiste nel giungere alle stesse conclusioni partendo dallo studio nel caldo della coltivazione degli enzimi dell'embrione, cio' che fornisce indicazioni sulle loro caratteristiche genetiche.
Si sono fatti anche dei passi avanti mediante l'analisi del consumo d'ossigeno embrionale. E sono stati persino elaborati modelli matematici. Un gruppo di studiosi dell'Intelligence System Groups dell'Università del Paese Basco, diretto da Dinora Morales, ha elaborato un metodo, attraverso il sistema delle probabilità, in cui a partire da certi dati clinici della coppia (età, qualità dello sperma) e caratteristiche morfologiche dello zigote, arriva a una cifra di probabilità d'impianto. Nessuno di loro ha dato per ora risultati considerati soddisfacenti dalle cliniche di fertilità.
Specialisti come Carlos Simon considerano che, se in condizioni ideali il successo dei trattamenti può arrivare al 60% dei casi, i progressi nella selezione degli embrioni possono aggiungere altri 30 punti percentuali.
L'altra faccia della medaglia nella fecondazione è la ricettività endometriale della madre, fattore che corrisponde al residuo 10%. Ma questa è un'altra storia.
Malgrado le resistenze dei settori più "classici", che continuano ad avere fiducia nella biopsia e negli studi genetici, una buona parte degli embriologi punta alla metabolomica come alternativa del futuro per evitare le gravidanze multiple. Un'idea che si riassume nel motto "un embrione, un bambino".
Articolo tratto da El Pais, traduzione di Rosa a Marca

 
 
 
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