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La vita e' un bene disponibile? Si', ecco perche'
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Articolo di Claudia Moretti
4 aprile 2006 0:00
 
Negli articoli di scienza giuridica spesso troviamo sostegno alle tesi contrarie all'eutanasia come al suicidio assistito o persino alle direttive anticipate di trattamento (testamento biologico) assumendo come assioma che "la vita non è un bene disponibile". Nei manuali di diritto, spesso lo si legge con frasi apodittiche e indiscutibili.
Ma cosa vuol dire intanto "bene disponibile"? E sulla base di quale norma di diritto positivo certi giuristi affermano indisponibilità della vita?
Un bene o un diritto disponibile è, secondo il nostro diritto civile, un diritto che ognuno di noi può vendere, alienare, trasferire, cedere a qualunque titolo ecc.Al contrario un bene o diritto indisponibile è ciò che non può esser validamente venduto, alienato, trasferito, ceduto.o meglio, ciò che non può esser oggetto di un contratto o di atto giuridicamente coercibile e vincolante. Naturalmente nella vita reale, diversamente da quella giuridica, ognuno fa dei propri beni e diritti indisponibili ciò che vuole, ma non riceverà alcuna tutela giuridica da parte dell'ordinamento né da parte di alcun giudice. Ad esempio, il diritto alle ferie è per il lavoratore un diritto indisponibile, e in quanto tale non trattabile o barattabile con denaro perché posto a tutela dell'integrità psico-fisica dello stesso. Ovviamente se vuole lavorerà lo stesso, nessuno lo multerà o glielo impedirà con la forza, ma ciò non potrà esser oggetto di accordo-contratto fra lui e il datore di lavoro.
E' questo il senso dell'art. 5 del codice civile, invocato a sostegno di chi nega la possibilità per ognuno di noi di decidere cosa fare della propria vita e del proprio fine vita, o per chi nega la possibilità che nel nostro ordinamento possa trovar spazio il testamento biologico, tanto più se contenente disposizioni che accelerino la propria fine. La presunta "impossibilità giuridica" si fonda spesso su questo articolo : "Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume".
Poiché si verte in tema di diritto civile, ossia di diritto fra i privati, detto divieto non è da leggersi quale "divieto!" come lo sarebbe se contenuto nel codice penale o nel codice della strada, al quale evidentemente seguirebbe chiara e tassativa la pena o la sanzione in caso di inosservanza (cosa che qui manca, appunto in quanto norme che regolano i contratti ed i rapporti fra privati). Detto divieto sancisce solo che l'ordinamento non offre tutela giuridica, ossia che in caso di inosservanza di un contratto che ha ad oggetto l'integrità fisica, non ne imporrà l'attuazione coatta. In altre parole, se avrò venduto un braccio per 3.000 euro non posso pretenderne l'adempimento ad opera della giustizia, che riterrà la vendita nulla.
Quei giuristi che fondano, dunque, sul divieto di cui all'art. 5 codice civile, le proprie teorie contrarie alla possibilità di rifiutare le cure, di disporre per il futuro dei casi in cui vorrà rifiutarle ma non potrà farlo, operano, ad avviso di chi scrive, una mistificazione giuridica di scarsa onestà intellettuale. Ciò è ulteriormente avvalorato dal fatto che detta norma, non solo è situata in un campo non idoneo ad un diritto quale quello in oggetto, ossia il diritto alla scelta terapeutica, alla libertà individuale, al divieto di trattamenti sanitari obbligatori, che trova invece la sua sede naturale -nonché piena ed esaustiva tutela - nella Costituzione (art. 13 e 32), ma che anche altre norme di pari e di superiore rango individuano il soggetto quale "disponente" della propria vita ed esistenza.
Si pensi infatti al diritto penale. Il tentato suicidio non è "reato". Ma se così è, allora perché dovrebbe vietarsi "civilisticamente" ciò che poi si autorizza penalmente e si tutela costituzionalmente?
 
 
 
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