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Chiedo di morire perche' amo la vita
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Articolo di Redazione
10 febbraio 2014 10:54
 
“Chiedo di morire perche' amo la vita”. Coi suoi 63 anni, José Luis Sagués, madrileno con origini basche-navarre, e' pronto ad affrontare il sistema per conseguire il proprio obiettivo: “Decidere quando voglio morire”. Alla fine lo ha conseguito con l'aiuto dell'associazione “Derecho a Morir Dignamente” (DMD – diritto a morire con dignita'). Questa ONG ha rilevato che questo uomo viveva in uno condizione di malessere e deterioramento che ha considerato sufficienti per sedarlo, cosi' e' riuscito ad accorciare la propria vita, a fronte del servizio di cure palliative che glielo negava. E' quanto e' riuscito a conseguire questo lottatore che aveva ben chiaro di non volersi consumare fino alla fine. “Voglio lasciarvi dopo averlo deciso io, dopo aver bevuto un bicchiere di vino”. Secondo uno dei medici che lo ha assistito in merito, “e' stato come il film 'Le invasioni barbariche', con tutta la famiglia che era con lui. Non sono state fatte fotografie o dei brindisi. Si e' lasciato andare e lo abbiamo sedato”, dice. L'indignazione di fronte al sistema che gli negava un'uscita (con l'eutanasia che non e' legale, l'unica opzione legale in Spagna e' la sedazione terminale), lo ha portato a raccontare la sua storia al quotidiano El Pais.
Lo ha fatto lo scorso 24 gennaio. La sua idea era di riuscire ad avere il trattamento finale il giorno 1 di febbraio. Ma ha lasciato cadere entrambe le date. Un peggioramento delle sue condizioni domenica 26, ha accelerato il percorso. I medici di DMD, che hanno certificato il suo stato di “malessere fisico e psicologico” gli hanno fatto il trattamento lunedi' 27 gennaio. E' morto il giorno successivo.
Due giorni prima dell'ultima crisi, nella camera di una luminosa abitazione che condivide con Concha, sua moglie -”a lei non piace, ma voglio comunque lasciare”, dice con testardaggine- a El Alamo, un paese a 40 chilometri da Madrid, José Luis e' un turbinio di idee e citazioni. “Non credere, ho dovuto coinvolgere tutti per rilasciare questa intervista. A volte non posso parlare", dice quasi scusandosi. La morfina e le anfetamine lo hanno trasformato in una persona che conversa velocemente e provoca qualche piccolo intervallo che non maschera la sua lucidità.
“Questo e' cio' che penso: quando viene la dottoressa delle cure palliative, mi dice di resistere, che nonostante tutto ho la testa che mi funziona. Ma proprio per questo chiedo di andarmene ora. Non chiedo di consumarmi, di perdere la coscienza. Io gia' mi consumo, ma sembra che non sia sufficiente”, dice indignandosi. Sono le stesse cose -dicono i medici che lo hanno assistito fino alla fine- che ha detto lunedi', dopo la crisi della domenica, nella notte in cui e' caduto dal letto, un fatto che lo riempiva di preoccupazione per la possibile perdita del controllo della situazione. “Il fatto che sapeva che le cure palliative non prevedevano la sedazione, sapeva gia' la risposta”, dice il medico.
Professore di Filologia tedesca all'Universita' Complutense di Madrid, José Luis ha preso atto come, durante l'ultimo anno, ha dovuto mettere da parte la propria vita. “Come diceva Cortàzar, 'non c'e' niente da fare, il match e' andato off', per me la partita sta gia' bruciando le dita”.
La sua fermezza e' venuta meno solo un paio di volte. Una quando gli viene detto che la decisione di avere una sedazione palliativa gli puo' essere concessa solo grazie all'appoggio dei suoi cinque fratelli, dei suoi nipoti, di alcuni amici. L'altra quando ricorda che a sua sorella Regina di 50 anni, la piu' piccola, non fu data questa opportunita'. “La torturano. Era spostata con un italiano di Berlusconi che fece di tutto pur sapendo che non serviva a nulla". Proprio quello che José Luis non voleva per lui. La sua morte e' stata come un riscatto per le sofferenze di sua sorella.
“Chiedo di morire perche' amo la vita, perche' son contento di essere vivo, e se una persona rimane incantata dalla vita, sa che sapere morire e' parte di questo percorso. Non chiedo di farlo con contentezza. Non sono disperato. Io non ho paura. Si vive molto meglio senza paura. Ma ora, da solo non mi estinguo, perche' ho ancora un po' di forza biologica. E non ha senso aspettare che scompaia. Non voglio arrivare a tale situazione. Sono gia' abbastanza consumato. Non voglio che la morfina mi offuschi, o che [il vescovo] Rouco Varela mi faccia da palliativo", dice convinto.
“Ateo, repubblicano e comunista”, José Luis e' stato in carcere durante il franchismo. “Era cio' che mi spettava, non mi rammarico”, racconta. Questi convincimenti gli hanno segnato la vita. “Come dice Feuerbach, si tratta di trasformare il mondo. E io sono soddisfatto”.
Nel turbinio della sua mente, la sua ultima frase ha diverse letture. Puo' darsi che sia l'aspettativa per un risultato entro tre mesi, proprio prima del suo ultimo ricovero in ospedale, quando monto' un'opera drammatica su un poeta tedesco all'Istituto Goethe. O per la rassicurazione che aveva fatto tutto il possibile per arrivare alla fine “con tutto il suo bagaglio”.
Non e' stato un anno facile. “Incominciai a sentirmi male alla fine del 2012. Mi sentivo soffocare. Eravamo a San Sebastian, e in diversi vanno al pronto soccorso durante le vacanze di Natale. Era come se avessi problemi al cuore, ho fatto una prova: sono andato ad un barbecue, ho preso una buona bistecca con l'insalata, i vostri peperoni, il vostro vino. Se questo non mi faceva male, vuol dire che non era il cuore”. Non lo era, dice, e questo mi fece rilassare di fronte a quel buon cibo di chi vuol vivere bene -”non come ora, che con la morfina ho la bocca accartocciata e tutto cio' che mangio sa di nulla-”.
Torno' a Madrid guidando l''auto da San Sebastian, e fini' diritto al pronto soccorso. “Poco a poco, prova dopo prova, era chiaro che avevo un cancro. Ma volevo sapere di che tipo”. Alla fine ci fu una diagnosi: “Un adenocarcinoma polmonare di quarto grado [la cavità dove c'e' il cuore]. Mi hanno dato un anno di vita, proprio quello che ho vissuto. Il cancro è una malattia genetica, perché non ho fumato in vita mia e sono stato molto atletico. Non ho praticato calcio, ma ho fatto un sacco di mountain bike e canoa".
“Mia sorella ha fatto di tutto pur sapendo che era inutile”.
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(qui il video e il seguito dell'articolo di Emilio de Benito, pubblicato sul quotidiano El Pais del 10/02/2014)

 
 
 
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