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 ITALIA - ITALIA - "Quelle vite sospese nel reparto di rianimazione" (Adriano Sofri e Umberto Veronesi)
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Notizia 
20 ottobre 2006 0:00
 
di Adriano Sofri

La prima volta che tornate, da pellegrini, coi vostri piedi, nel reparto di rianimazione, siete un po' delusi dalla piccolezza e dalla calma, come a rivedere da adulti certi luoghi favolosi e tumultuosi dell'infanzia. Poco meno di una meta' di ricoveri dura meno di 24 ore, la media degli altri e' di otto giorni. Ci siete stati invece dieci giorni in coma, e poi venti giorni in uno stato vigile, benche' non subito lucido. O piuttosto, troppo lucido, com'e' il delirio paranoico, effetto di sedazioni potenti il curaro, chi immaginerebbe di essere curato dal curaro? Nella transizione dall'anestesia alla veglia, siete vittime di una mostruosa cospirazione, medici e infermieri vi torturano e si preparano ad ammazzarvi, i vostri stessi famigliari non vogliono credere al vostro allarme, e forse stanno prestandosi alla congiura. Quando state meglio, ve ne vergognate un po' non tanto, pero' e capite che forse morirete, e che medici e infermieri stanno cercando di impedirio. Allora avete paura di non morire, e di restare compromessi nei corpo, o nella mente, e che vogliano salvarvi per una vita che non vorreste accettare. Prima avete temuto che vi volessero torturare e assassinare. Adesso temete che vi vogliano torturare e salvare la vita. Non e' solo la paranoia indotta dagli anestetici: la rianimazione assomiglia a una sala di tortura. E', per cosi' dire, una tortura alla rovescia, non per spogliare meticolosamente di dignita' e di vita un corpo sano, ma per risanare un corpo gia' esanime e spossessato. Simile e' la sensazione di essere privati di se, e di guardare penosamente il proprio corpo, reso estraneo e umiliante, in balia di sconosciuti. Negli altri reparti d'ospedale i malati, anche i piu' gravi, sono di norma svegli, e dunque si suppone magari assurdamente che possano dormire, mentre in rianimazione i pazienti sono di norma addormentati, e non sono in grado di risvegliarsi, o addirittura sono trattenuti in un sonno profondo, e dunque in rianimazione non c'e' differenza fra giorno e notte, ne' per i pazienti, ne' per i medici e gli infermieri, mentre negli altri reparti si rispetta fin troppo strettamente, non so se per la forza dell'abitudine o per ragioni sindacali, la differenza fra giorno e notte, e di notte le cure ordinarie sono sospese, e vige solo un'azzardata custodia cautelare, anche se chi sta male non vuoi saperne di star meglio solo perche' e' scesa la notte, e le notti insonni dei malati non finiscono mai.
Quando per un'eccezione l'ospite della rianimazione e' vigile, l'indistinzione fra giorno e notte lo disorienta, in un modo che puo' essere penoso o allegro, come un soggiorno invernale ai Polo sud. La luce dei giorno non entra nel reparto, dove sono sempre accese le luci artificiali e colorate della catasta di macchinari che alimentano i respiri e il battito dei cuori e i'introduzione di liquidi nei corpi, e la batteria di suoni meccanici che li scandiscono, base fissa, inframmezzata da suoni di allarme ed emergenza, fino a quelli, come un singhiozzo artificiale, che segnalano la vita che si spegne. Chi e' vigile, dunque, guarda similmente ai proprio e agli altrui corpi vicini con un senso di estraneita' e di compassione, e osserva l'affaccendarsi esperto, e spesso frenetico e convulso, di medici e infermieri attorno ai corpi altrui, vedendoli trattati come una provvisoria materia inerte ancora riscattabile alla vita, e figurandosi il proprio corpo maneggiato con la stessa esperienza e frenesia in bilico fra un'inerzia sui punto di spegnersi definitivamente e una scommessa di risveglio. A volte i curatori maneggiano il corpo senza accorgersi che e' a suo modo vigile, e li guarda e li ascolta, e li introduce dentro una propria trama, spaventata o rassicurante, come succede a volte dei sogni che incamerano e piegano a se' suoni ed eventi reali esterni prima di cedere ai risveglio. Chi e' vigile conosce e inventa insieme la storia dei suoi vicini una bambina in coma da settimane, i cui genitori non si staccano dal capezzale, un giovane albanese che ha sbattuto con la moto, una ottuagenaria operata all'aorta che urla improperi e ricade in una catalessi, un anziano operaio che tiene gli occhi aperti ma non c'e', e le visite intimorite di sua moglie, che sembra scusarsene. Ci arrivano anche i bambini, in rianimazione, perfino i neonati, e tuttavia e' raro che ci siano posti pensati per loro: i rianimatori si ingegnano, escogitano una nicchia in cui tenerli immobili, un casco da motociclista, per esempio. Chi e' vigile e giace, attaccato a un ventilatore, ammutoilto dalla tracheotomia contento, in principio, di essere esonerato dalla parola traforato di cavi di entrata e tubi di uscita, guarda, e gli sembra che la propria sorte dipenda fatalmente da quella dei vicini, il suo imprevisto prossimo, e oggi forse stamattina forse stanotte, chissa' ai giovane albanese della moto e stata amputata una gamba, e l'operaio anziano continua a tenere gli occhi aperti a vuoto, e gli fanno una ginnastica inerte, come a un manichino, pollo rimettono giu', inclinato sull'altro fianco, e la vecchia grida oscenita' e ripiomba in letargo, e i genitori tengono la mano della bambina e si tengono per mano. Che cosa sara' di loro, che cosa sara di lui, e la stessa cosa. E' un'impresa comune. Chi e' vigile si sente chiamato a battersi anche per loro, che giacciono addormentati e ignari. La rianimazione e' in verita' una nave mascherata da edificio cittadino, ma al tramonto un tramonto immaginato, a occhio, sui cambio turno degli infermieri cade l'impalcatura cittadina e si scopre lo scafo l'alberatura e le vele dei vascello corsaro, che salpa alla volta deilla quotidiana battaglia navale sotto una luna piena, nella distesa d'acqua della Piazza dei Miracoli. Il capitano e' un anestesista con la barba da pirata, o da populista russo, e prende nota di tutto su un suo quaderno segreto, il nostromo e' un chirurgo dai capelli rossi, il miglior uomo dei mondo, per voi un rinnegato, che sbandiera ogni giorno di nuovo su una nuova costa la resurrezione di un paziente, sempre lo stesso, in combutta con lui per fingere e riscuotere certe medaglie internazionali. Chi e' vigile ma inchiodato ai suo letto deve contemporaneamente partecipare all'arrembaggio di un'ammiraglia nemica e ordire un ammutinamento contro la fellonia del rosso e dei suoi accoliti, infermieri e agenti segreti travestiti da lavoranti delle pulizie. Finche' tramonta la luna, cambia di nuovo il turno, la nave corsara torna ad ancorarsi e a drizzare la sua facciata di palazzina, e si ricomincia con la recita delle visite, delle misurazioni, dei prelievi, delle terapie, degli sguardi d'intesa fra i medici e delle battute delle infermiere che parlano ai corpi vigili o sedati come si parlerebbe a un neonato,e in effetti quelli sono vicini alla parete dell'aldila' come un neonato, e hanno loro stessi l'impressione, se possono avere impressioni, che fra lo stare per andarsene all'altro mondo e l'essere appena venuti a questo mondo non ci sia pressoche' differenza. E questo dura un'eternita'. Finche' si accetta di nuovo di parlare, si chiede un foglio e una matita, e con una mano semilibera si scrive un pensiero, un desiderio, un ordine, un insulto ma l'infermiera, la moglie, la dottoressa, la figlia, prende il foglio, lo guarda, scuote la testa e non sa leggervi che uno scarabocchio insentato, uno zig zag infantile che parte in alto a sinistra e finisce in basso a destra. Non sapete scrivere, non sapete parlare ne' camminare, ne' padroneggiare il vostro respiro, ne' i vostri sfinteri, e non sapete se mai sarete capaci di reimparare, e tanto meno se ne avete voglia, e vi prende una febbre cosi' alta da darvi il delirium tremens, e di nuovo si corre attorno a voi a fare movimenti frenetici che vi sfuggono e non fanno piu' appello a voi, si compiono alle vostre spalle, per cosi' dire, forse per finirvi, forse per salvarvi, forse, e quello che fa paura, per rifiutarsi di finirvi senza potervi salvare. Succedono cose. Il giovane motociclista, poco piu' che ventenne, robusto com'era, aveva perso una gamba, e ora perde la vita. La bambina dalla testa fasciata ha aperto gli occhi, ha guardato i suoi genitori come se li avesse lasciati la sera prima, e loro sono pazzi, la coprono di baci, e stringono le mani dei medici e delle infermiere. Tutti contenti e intimiditi, anche la moglie dell'operaio anziano, il quale ha gli occhi aperti chissa' su cosa, e ha un viso bruciato che starebbe bene a un Papa. Il paziente vigile, cosi' com'e', senza respiro, senza parola, col cavi d'entrata e i tubi d'uscita, viene messo su un'ambulanza e trasferito in un reparto normale, con un'allegra sirena, nei mondo in cui si fa differenza fra li giorno e la notte. Non e' in salvo, ma puo farcela. Via da quel limbo di corpi in aspettativa, santi tauniaturghi, arcangeli e churubine infermiere, diavoli inforcatori. Restare in rianimazione, d'ora in avanti, potrebbe fargli piu' male che bene, e poi bisogna liberare il posto. Dicono che chi abbia trascorso anche una sola ora in rianimazione da sveglio, non vede l'ora di dimenticario. Pero' a certi pazienti resta una nostalgia. Come di altri posti di sofferenza estrema, citta' assediate, citta' bombardate, celle di isolamento, luoghi che non dovrebbero esistere, ma dai quali ci si stacca a malincuore, perche' si ha la sensazione di essersi avvicinati al senso della morte, o della vita, che e' lo stesso. Si libera il posto guarendo, o morendo. Non di rado i rianimatori, alle prese con il posto, devono scegliere fra l'uno e l'altro: fra il ragazzo del motorino e l'anziano cronico. Per liberare un posto, si puo' trasferire l'occupante a un'altra rianimazione provvisoriamente disponibile e' un rischio. Si puo' staccare, in favore dei nuovo arrivato che puo' farcela, un malato che non ha possibilita di sopravvivere (ma allora perche era attaccato? I parenti, il rischio legale, l'accanimento...). Ma se si stacca per liberare il letto si perdono gli organi per il trapianto: un candidato alla morte cerebrale si puo' far aspettare. Si puo' arrangiare un letto in piu', in qualche angolo: ma vuol dire ridurre l'assistenza per tutti. Allora? Si decide, si sceglie. Tutti i giorni e' cosi', la dentro, tutte le notti.
(Le Repubblica, 18-10-2006)

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di Umberto Veronesi

Caro Sofri, fanno male le parole con cui lei descrive le vite sospese in terapia intensiva ed e' stato un atto di coraggio di questo giornale pubblicarle in prima pagina. Quelle parole non contengono infatti rancore polemico, ne' note strappalacrime, e neppure consolatorie promesse di salvezza. Danno voce autentica al dolore che non fa notizia. Quello con cui nessuno si vuole identificare e dunque nessuno pensa a come affrontare, quello che i medici preferirebbero ignorare perche' rappresenta la sconfitta della loro professione e che ognuno relega fra le sventure di fronte alle quali non resta che allargare le braccia, con la sola speranza che "proprio a noi" non accada mai. A chi interessa "Cosa sognano i pesci rossi"? Non a caso cito il titolo del libro di Marco Venturino, medico direttore della divisione di anestesia e rianimazione all?Istituto europeo di oncologia. Il suo racconto, caro Sofri, mi ha subito richiamato alla mente quello del protagonista del libro, un uomo nel pieno dell?eta' e della carriera che si trova di colpo travolto nella tragedia di un cancro inoperabile e metastatico. Un intervento chirurgico inutile e sbagliato lo trasforma in un "prigioniero del suo corpo", in un numero, il 7, quello del suo letto in terapia intensiva, in un "pesce rosso" che, a causa di una tracheotomia, non emette alcun suono e che vive, "come in una vasca di un acquario troppo piccolo, l?unico esistere che gli compete. A dirigere - dice - il flusso dei miei pensieri che peraltro non mi appartengono piu' di tanto perche' io vorrei soltanto dimenticare, annullare, prolungare gli oblii e uscire in silenzio da questa scena che mi e' stata imposta e che verosimilmente sara' l?ultima della mia vita terrena - ma a cosa diamo la definizione di vita?".
Anche queste parole mettono a nudo tre grandi nervi scoperti: il rapporto dell?uomo con la malattia, il dolore e la morte; il rapporto fra potenza e impotenza della medicina; il rapporto fra medico e paziente. Se le leggiamo con attenzione, tutti noi, medici e no, malati e no, riusciamo a sentire su di noi l?angoscia del malato grave. E ci accorgiamo che questa angoscia non deriva tanto (o soltanto) dalla paura della fine ma la perdita di dignita' causata dal dolore e dalla aggressivita' delle cure.
E' il dolore che annulla la persona e che riduce l?uomo a cosa. Per questo bisogna usare ogni mezzo per evitarlo. Inoltre sentiamo una nuova paura nei confronti della fine della vita...
Mentre un tempo il terrore unico e universale era quello di morire, ora si associa anche quello di essere tenuti tecnologicamente in una vita artificiale. E qui arriviamo al secondo punto: la potenza e impotenza di una medicina che cura sempre di piu' e guarisce sempre di meno. Ma qual e' allora il nuovo limite della cura? Se la medicina non puo' guarire, deve davvero ugualmente curare per dimostrare le sue capacita'? E se si', fino a che punto e a quali costi umani, per non diventare accanimento terapeutico e ripiombarci nel dramma del dolore? Paradossalmente il grande sviluppo dei mezzi tecnici e tecnologici delle scienze biomediche hanno allargato in molti casi il divario fra possibilita' di cura e possibilita' di guarigione, mettendo i medici di fronte a dilemmi sempre piu' complessi che riguardano non solo la malattia del paziente, ma la vita e la sua fine. Ed eccoci al terzo punto il rapporto medico-paziente. Il medico moderno ha dimenticato l?esistenza di una medicina dei gesti (le parole prima di tutto, ma anche gli sguardi e le carezze), di una dimensione soggettiva sempre presente nella malattia, ogni malattia, anche la piu' grave, che va compresa e anch?essa curata. È un medico che spesso non sa piu' vedere la differenza fra curare la malattia e curare il malato e tra curare il dolore e curare la sofferenza.
Ci sono malattie che provocano un dolore terribile, ma che si puo' dominare e annullare con le medicine. Ma la sofferenza, quella profonda, psicologica ed esistenziale, si risolve solo con la "compassione", nel senso greco del termine (soffrire insieme), e con l?empatia, che significa immedesimazione nei bisogni e nelle paure di chi ci sta di fronte... Bisogna non solo aver voglia di comunicare, ma anche saperlo fare. Bisogna saper esplorare chi ci sta dolorosamente di fronte, prima di mettere in atto qualsiasi terapia. Di ogni malato bisogna saper capire la sensibilita', la storia, il passato, il carattere. Non e' un compito facile per il medico: si sbaglia, si confonde. E allora? Comunque, nel limbo infinito della rianimazione "si decide, si sceglie. Tutti i giorni e' cosi' la' dentro, tutte le notti". Sofri, lei ha assolutamente ragione ma io aggiungo che non possiamo fermarci qui. Penso che se sia la conoscenza che la coscienza che abbiamo di noi stessi si e' evoluta e qualcuno ha il coraggio di dirlo, non possiamo piu' lasciare troppi nervi scoperti. Dobbiamo riconsiderare il rapporto fra cittadini e medicina: rinforzare i diritti di tutti all?autodeterminazione, incoraggiare i pazienti ad essere consapevoli ed esprimere le proprie posizioni rispetto alle cure che vengono loro proposte, educare i medici a tenere conto sempre delle volonta' del malato e allo stesso tempo fare in modo che non si trovino da soli di fronte alle decisioni terapeutiche piu' difficili.
Abbiamo strumenti da analizzare, gia' utilizzati in altri paesi: dal consenso informato alle cure (che per fortuna e' un obbligo anche in Italia), al testamento biologico, fino alla legalizzazione dell?eutanasia. Vorrei che su questi temi l?attenzione fosse alta, la riflessione profonda e che nel dibattito si ascoltasse sempre la voce dei malati. Come io e molti altri abbiamo ascoltato, caro Sofri, la sua.
(La Repubblica, 19-10-2006)
 
 
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