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Le zone morte degli oceani. Pericolo ambientale e nutrizionale
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Articolo di Redazione
14 settembre 2017 12:03
 
 Immobili, i crostacei e i coralli vi muoiono. I pesci, anche loro, li evitano. La biodiversita’ marina ha poco da guadagnare ad avere a che fare con le “zone morte”, povere di ossigeno. Marocco, Peru’, California… Ce ne sono piu’ di 400 in giro per il mondo. Con una superficie totale di 245mila chilometri quadrati, piu’ spesso lungo le coste occidentali dei continenti. Il fenomeno e’ vecchio come il mondo. Ma l’Agenzia americana di osservazione oceanica e atmosferica (NOAA) ha scoperto di recente che questo e’ presente nel sud degli Usa, col golfo del Messico, che e’ e’ diventato piu’ grande del 3% in quindici anni. La sua estensione e’ oggi stimata in 22mila Kmq.
“Metodi estremi o correnti marine particolari hanno potuto creare delle zone in modo naturale”, spiega al quotidiano Libération Paul Tréguer, biochimico e fondatore dell’Institut universitaire européen de la mer (IUEM) di Brest. Ma, questi ultimi decenni, l’attivita’ umana amplifica il fenomeno. E inoltre si moltiplica, le zone morte si estendono. Quindi, osservando l’aumento di quello del golfo del Messico, il NOAA nota amaramente: “L’inquinamento agricolo e urbano, che si accumula nel fiume Mississipi, continua a colpire le risorse delle coste e gli habitat acquatici”.
I fertilizzanti nel mirino
L’agricoltura e gli allevamenti sarebbero all’origine dell’estensione delle zone morte, rilevate su tutti i continenti. “I fertilizzanti utilizzati dagli addetti ai lavori aggravano il fenomeno”, conferma Tréguer. Gettati nell’acqua, i nutrimenti contenuti in questi prodotti si accumulano e favoriscono la comparsa delle alghe. Per scomporsi in microbi, questi ultimi assorbono una grande quantita’ di ossigeno. Ne risulta una domanda piu’ forte, ben superiore a quella che il contesto delle acque puo’ fornire, “soffocando quindi gli oceani”.
Dal mar Baltico in Europa del nord, alla baia del Bengala, al largo del’India: l’uso dei fertilizzanti agricoli nuoce alle coste. Pur se Paul Tréguer ritiene che a questo livello le zone morte non rappresentano una minaccia globale, tuttavia considera che il fenomeno sia “allarmante”. Per lui, una parte della risposta e’ da trovare a livello politico. “ E’ facile deregolamentare l’ecosistema, molto meno rimetterlo in sesto”, dice. La maggior parte degli oceanografi sostiene, per il futuro, che l’uso dei prodotti chimici sia meglio regolamentato.
L’aumento dell’acqua, chiave di volta
Il ruolo del riscaldamento nella de-ossigenazione di alcune zone dell’oceano e’ molto evidenziato. “Piu’ l’oceano e’ caldo, meno sara’ ricco di ossigeno”, dice Tréguer. La temperatura cambia la densita’ dell’acqua. Quella del fondo dell’oceano non puo’ quindi che aumentare, fatto che limita il rinnovamento di ossigeno. Se la biochimica spiega che il fenomeno climatico non e’ all’origine delle zone morte, il nostro ritiene che sia quantomeno all’origine di una accelerazione. “Siccome la natura e' ben fatta, tutto e’ connesso”. Un basso tenore di ossigeno comporta necessariamente uno stravolgimento del ciclo dell’azoto. Impoverito di questo nutrimento essenziale, l’oceano non fornisce piu’ gli elementi necessari al mantenimento della catena alimentare. “Il vero pericolo sarebbe di assistere alla scomparsa progressiva di alcuni organismi”.
Lungo le catene dei vulcani sottomarini, la vita continua a proliferare malgrado l’assenza di ossigeno. “E’ un fenomeno lento a manifestarsi, ma alcuni organismi sono capaci di adattarsi ad un simile ambiente”, assicura il biochimico. Pur se non e’ sostenibile veder sparire delle specie animali o vegetali, gli scienziati attirano l’attenzione su un’altra conseguenza diretta delle zone morte. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale dovrebbe avvicinarsi ai 10 miliardi di individui entro il 2050. Cioe’ circa 3 milioni di bocche in piu’ da sfamare. L’estensione delle zone morte potrebbe, alla fine, essere pregiudizievole per l’industria della pesca e, quindi, per l’alimentazione ittica dell’uomo.

*** nella foto: la spiaggia di Calvert Cliffs Satet Park nella baia di Cheasapeake in Maryland (Usa). La baia e’ stata la prima zona del Pianeta ad essere dichiarata “zona morta”. (foto AFP)

(articolo di Arthur Le Denn, pubblicato sul quotidiano Libération del 14/09/2017)
 
 
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