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Il virus segna l’inizio di una nuova società dell’innovazione
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Articolo di Redazione
11 settembre 2020 9:01
 
Il 2020 resterà un anno che difficilmente dimenticheremo. Segnerà per sempre il momento in cui il Coronavirus è entrato nelle nostre città, nelle nostre aziende, nelle nostre vite. Il Covid 19 non rappresenta soltanto un nemico per la nostra salute, una minaccia per la nostra società, un problema per le nostre economie.
Il virus sta fungendo anche da elemento catalizzatore e acceleratore del cambiamento, rendendo immediati e manifesti fenomeni che fino a pochi mesi addietro si stavano soltanto profilando all’orizzonte. Difficoltà che si andavano prefigurando in modo ancora graduale e indefinito, di colpo sono apparse in tutta la loro gravità e nitidezza; problemi che si pensava di dover gestire nell’arco dei prossimi lustri, improvvisamente sono diventati nodi da sciogliere nell’arco di poche settimane.

A prescindere dagli sviluppi e dagli esiti che l’epidemia avrà dal punto di vista medico, l’impronta che il Coronavirus lascerà sul mondo sarà indelebile. Tanto dal punto di vista sociale quanto sul piano economico, tanto in sede politica quanto in ambito aziendale, nulla sarà come prima: il Coronavirus ha di colpo tramutato il domani nell’oggi, il futuro nel presente.
Siamo così tutti chiamati con urgenza ad uno sforzo di riflessione, di studio, di iniziativa, per costruire – nei suoi diversi aspetti – la realtà post Covid 19. È diventata ormai un luogo comune l’affermazione che ogni crisi rappresenta anche una opportunità di crescita.

Sempre più spesso si legge una citazione attribuita ad Albert Einstein: «La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato».
I lutti, il dolore, le difficoltà, le preoccupazioni, le paure di questi mesi, per il mio personale sentire, portano ad avvertire in questo genere di frasi qualcosa di improprio, di sbagliato, di stonato. Ciò non di meno, indiscutibilmente oggi il Coronavirus ci costringe a – e, per qualche verso, ci consente di – progettare qualcosa di nuovo e di diverso.

Siamo tutti chiamati ad una sfida difficile, angosciante, in qualche modo entusiasmante, che richiede di contemperare dinamiche astrattamente contrastanti: da un lato, la necessità di trovare risposte valide a problemi gravi in tempi brevi; dall’altro lato, l’esigenza di individuare soluzioni davvero innovative e realmente divergenti dagli schemi del passato.

La tragedia che stiamo attraversando deve anche portare con sé, e diffondere tra di noi, una maggiore consapevolezza delle straordinarie peculiarità e delle irripetibili potenzialità del Paese nel quale viviamo: se c’è un Paese che ha le forze, le caratteristiche ed i mezzi per resistere alla tempesta in corso ed uscirne più forte, facendo poi rotta verso un domani migliore, quello è l’Italia.
Il Coronavirus, dunque, funge da elemento catalizzatore ed acceleratore del cambiamento, ci spinge e ci costringe in ogni ambito all’Innovazione, al superamento dei modelli esistenti. E l’Innovazione della quale la società ha urgente ed assoluto bisogno presenta caratteristiche peculiari, che in qualche modo la differenziano dai processi innovativi del passato, dagli schemi che ci erano abituali.
L’Innovazione odierna bisogna che sia Aperta e Condivisa, tale da svolgere la sua storica funzione di conferire all’azienda promotrice o al soggetto sviluppatore un vantaggio competitivo, ma al tempo stesso atta ad essere resa fruibile dalla collettività nel suo complesso, per lo sviluppo ed il progresso dell’intera comunità.

L’Innovazione, poi, oggi non può che operare muovendosi nell’orizzonte della Sostenibilità ambientale, economica e sociale. Sostenibilità ambientale, innanzitutto, per il rispetto e per la tutela del pianeta che ci ospita. Sostenibilità economica, poi, per un sistema capace di generare una crescita duratura di ricchezza e del lavoro. Sostenibilità sociale, infine, che consenta di porre rimedio alle disuguaglianze e favorisca lo sviluppo della collettività nel suo insieme.

Sono tutti aspetti tra di essi connessi e interdipendenti. Appaiono significative le parole di apertura del noto documento “Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development”: «Questo programma è un piano d’azione per la gente, il pianeta e la prosperità. Inoltre, cerca di rafforzare la pace universale in un contesto di maggiore libertà. Riconosciamo che lo sradicamento della povertà in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la povertà estrema, è la più grande sfida globale e un requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile. Tutti i paesi e tutte le parti interessate, agendo in uno spirito di collaborazione, attueranno questo piano. Siamo decisi a liberare la razza umana dalla tirannia della libertà e proteggere il nostro pianeta. Siamo determinati a intraprendere le azioni coraggiose e trasformative che sono urgentemente necessarie per portare il mondo su un sentiero di sostenibilità e resilienza. Mentre ci imbarchiamo in questo viaggio collettivo, ci impegniamo a far sì che nessuno sia lasciato indietro».

Obiettivi nobili, necessari, ambiziosi, che si possono raggiungere solo attraverso un modello di Economia Circolare, tale da fare perno su processi di condivisione, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo di prodotti e materiali il più a lungo possibile.
Tra le molte definizioni che sono state rese di Economia Circolare, quella della Ellen MacArthur Foundation così autorevolmente recita: «temine generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera».

Luca Dal Fabbro riprende e declina il concetto con lucidità e pragmatismo, traducendolo nel «far rientrare i materiali continuamente in gioco seguendo due binari, quello delle materie biologiche (derivanti dai cicli naturali) e quello delle materie tecniche (derivanti dal ciclo artificiale)» (L’economia del Girotondo, 2017).
Un’azienda particolarmente all’avanguardia sul tema, Enel X, ritiene che parlare di «Economia Circolare vuol dire ragionare in una logica di eco-design, nella progettazione delle soluzioni, significa lavorare sulla Modularità, Longevità, Riparabilità e Riciclabilità dei prodotti e dei servizi offerti e su modelli di consumo basati sullo sharing e sul product as a service. È un modello economico che si fonda su cinque pilastri».

Tali pilastri vengono così sintetizzati: i) Sostenibilità delle risorse. ii) Prodotto come servizio. iii) Piattaforme di condivisione. iv) Estensione del ciclo di vita. v) Recupero e riciclo. Un fenomeno di cambiamento e di innovazione così importante e ampio come quello che stiamo prefigurando, naturalmente, non può che vedere nel ruolo di protagonista il mondo delle aziende.
Ma l’Impresa a sua volta è chiamata ad una evoluzione importante, ad assumere nella società funzioni per qualche verso di natura pubblica, che portano a compimento e vanno oltre il tradizionale concetto di Corporate Social Responsability.
Il rapporto tra Impresa e Bene Comune, tra Azienda e Collettività è da sempre fonte di discussioni e di contrasti. Ricordiamo, per dire da quanto lontano siamo partiti, una celebre vicenda verificatasi negli Stati Uniti ad inizio Novecento, che ha visto coinvolti Henry Ford ed i fratelli Dodge. John e Horace Dodge, tra i primi investitori della Ford Motor Company, ad un certo punto contestarono alla Ford l’inadeguatezza degli utili che stavano percependo in qualità di azionisti.
Henry Ford rispose che stava utilizzando gli utili della società per assumere nuovi dipendenti, diffondere nella comunità i benefici del sistema industriale, aiutare i lavoratori a costruirsi una casa e una vita dignitosa. La lite sfociò in una causa e la Corte Suprema del Michigam decise la controversia a favore dei fratelli Dodge, con la Ford che venne condannata a pagare ai propri azionisti un dividendo altissimo.

La vicenda viene qui riportata solo a titolo emblematico, in quanto di fatto la vertenza – a ciò che risulta – si basava su motivazioni più complesse e in una certa misura inconfessabili, con i Dodge e Ford che in quella fase andavano passando da un rapporto di amichevole partnership ad uno di dura concorrenza.
Al punto che il Prof. Marc Hodak, docente alla Business School dell’Università di New York, ebbe a dire: «Il motivo principale per cui viene citato questo caso è che si suppone che Ford voglia fare la cosa giusta per i suoi lavoratori. L’idea che in realtà stesse cercando di spremere i fratelli Dodge è qualcosa che si perde».

Il precedente, tuttavia, torna utile per enfatizzare quanta strada sia stata fatta per arrivare ai nostri giorni. In modo altrettanto simbolico ed esemplificativo, possiamo assumere come punto di arrivo di questo percorso la data del 19 agosto 2019, quando la Business Roundtable, un think thank di duecento CEO del Nord America, presieduto da Jamie Dimon, numero uno della JP Morgan Chase, ha pubblicato una innovativa ed eclatante dichiarazione programmatica.
I nuovi propositi fondamentali del capitalismo americano vengono così riassunti: i) Offrire valore ai nostri clienti; ii) Investire nei nostri dipendenti; iii) Trattare in modo equo ed etico con i nostri fornitori; iv) Supportare le comunità in cui lavoriamo; v) Generare valore a lungo termine per gli azionisti.

Il valore generato dalle aziende, ribadisce il documento nella sua conclusione, deve arrivare a tutti: «ciascuno dei nostri stakeholder è essenziale. Ci impegniamo a fornire valore a tutti loro, per il futuro successo delle nostre aziende, delle nostre comunità e del nostro Paese». Questo documento, come noto, è stato ed è largamente oggetto discussione: alcuni lo ritengono una manifestazione di mera facciata, un puro escamotage di cosmesi reputazionale; altri lo qualificano come una vera e propria pietra miliare, una svolta di portata storica.

Sembra evidente che, a prescindere da qualsiasi ulteriore giudizio, soltanto l’enunciazione di determinati concetti segna una raggiunta consapevolezza, da parte del mondo delle aziende, delle cruciali funzioni che esse sono chiamate a svolgere e delle grandi responsabilità che sono tenute ad assumere nella società contemporanea.
Il Coronavirus, dunque, condanna la società all’Innovazione, rende necessaria una sorta di nuovo design della realtà, nel segno della Sostenibilità e della Circolarità, con l’Impresa quale stakeholder di decisiva importanza. Un simile scenario, come dicevamo, vede l’Italia nella posizione di poter svolgere un ruolo di vera protagonista.

I processi innovativi che occorre innescare, infatti, prevedono immancabilmente un retroterra culturale solido e profondo, condizione essenziale per rendere possibili realmente lungimiranti, alternative e disruptive. Ed è incontrovertibile che il nostro Paese – al netto di tutti i noti problemi di carattere economico, organizzativo e infrastrutturale – rappresenta nel mondo una eccellenza ed un punto di riferimento, per il proprio patrimonio e la propria forza dal punto della Cultura intesa in senso lato.
Antonio Calabrò, commentando i «rapporti tra l’industria italiana e la cultura umanistica e scientifica», parla di un «Umanesimo Industriale», che «vive e cresce nei rapporti tra tecnologi e filosofi, scienziati e artisti, architetti e scrittori, in un rapporto spesso dialettico, sicuramente ancora creativo. Non si spiegherebbe, d’altronde, la resiliente competitività della migliore impresa italiana, se questi rapporti non fossero d’attualità» (Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2019).

L’Italia è anche una realtà molto peculiare ed interessante dal punto di vista della creazione e della gestione dell’Innovazione a livello aziendale. Il nostro Stivale, è risaputo, vede la presenza di pochi grandi gruppi industriali, mentre si caratterizza per una ampia e capillare diffusione di medie aziende di una specifica tipologia, che contraddistingue in maniera qualificante il nostro tessuto produttivo.

Si tratta di quelle che usualmente vengono dette Multinazionali Tascabili e che personalmente preferisco definire Imprese Innovazionali, in quanto nell’aggettivo “tascabile” avverto una qualche componente dispregiativa: parliamo di medie imprese, che competono con successo sui mercati internazionali, solitamente contro competitor di gran lunga più grandi, caratterizzate da una forte carica innovativa e da un reale radicamento sul territorio.

Questo significa che in Italia l’Innovazione non è concentrata all’interno di pochi grandi gruppi, blindata tra le pareti di un ristretto numero di società multinazionali, ma si trova diffusa in maniera capillare sui territori, in coerenza con i requisiti di condivisone e collettività richiesti dalle dinamiche dello sviluppo più avanzato.

Il nostro Paese, poi, non da oggi si confronta con il ruolo dell’Impresa nell’ambito del Sociale, come testimonia l’esperienza della scuola italiana di economia aziendale del Novecento, uno dei cui maggiori esponenti ebbe – già nei primi decenni del secolo – a definire l’impresa quale «Coordinazione economica in atto, istituita e retta per il soddisfacimento dei bisogni umani» (Gino Zappa, Tendenze nuove negli studi di ragioneria, 1927).

Adriano Olivetti, che anticipò molte delle dinamiche attuali in modo a tratti davvero sorprendente, diceva quando il Novecento era ancora al suo giro di boa: «Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna».

E «la nostra società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto» (Dal discorso pronunciato per l’inaugurazione dello Stabilimento Olivetti di Pozzuoli, 23 aprile 1955).

Francesco Caio, venendo ai giorni nostri, afferma con convinzione che «su svolta etica e profitti l’Italia è già un laboratorio, noi italiani, per storia e ambiente, abbiamo una marcia in più nel valore sociale di impresa. Possiamo giocarcela alla pari con tutti. Se solo riusciamo a usare il nostro capitale umano e gli asset che hanno fatto grande il nostro Paese» (Il Sole 24 Ore, intervista di Riccardo Barlaam, 22 agosto 2019).

Il prestigioso manager, nell’intervento citato, afferma che il modo italiano di fare impresa può essere riassunto nel concetto di «attenzione alla persona», traducibile in cinque punti:
1 - Avere una strategia di competitività per creare valore.
2 - Costruire l’impresa intorno alla persona e al suo desiderio di realizzazione.
3 - L’attenzione al territorio. In questo senso la fabbrica è vicina alla comunità che deve alimentare e rispettare.
4 - La bellezza, che si traduce nella capacità italiana di creare prodotti di qualità, l’attenzione allo stile. Il design di Olivetti quando Steve Jobs non era ancora nato. Le città d’arte, la storia, il paesaggio.
5 - Il software: la creatività, il genio italiano, mix di determinazione, intuito e innovazione.

Insomma, secondo Caio, il nostro Paese «può farcela e se la gioca alla pari con le grandi società e i grandi Paesi se si parla di centralità valoriale dell’impresa; l’Italia se la gioca nonostante le difficoltà di sistema, la tassazione elevata, l’incertezza normativa e tutti i problemi con i quali un imprenditore italiano è abituato a operare tutte le mattine» (ibidem).
L’Italia, dunque, patria ideale per dare impulso alla fase di cambiamento resa improcrastinabile dal Coronavirus e porsi in questo delicato frangente in posizione di leadership su scala internazionale, sulla scorta del suo unico ed irripetibile patrimonio di Cultura, in virtù dei propri assolutamente peculiari e capillarmente diffusi giacimenti di Innovazione, grazie alle eredità tramandateci in termini di visione del Futuro e del Mondo.

Malgrado i problemi, le preoccupazioni, le paure del momento, dobbiamo alimentare quotidianamente la nostra azione con fiducia e con coraggio, nella consapevolezza che il nostro Paese – pur tenendo conto di tutti i suoi limiti – ha le caratteristiche e le potenzialità per affrontare con successo le difficili sfide che ci troviamo dinanzi.

Potrà anche essere considerato un luogo comune, una mera mozione degli affetti, ma personalmente credo davvero che un altro elemento per guardare al domani con convinzione e con speranza risieda nello spirito del popolo italiano, che nei momenti cruciali è stato spesso capace di reazioni sorprendenti e di recuperi inaspettati. D’altronde, per concludere senza cadere nella retorica più bieca, diceva Giovannino Guareschi: «Gli italiani, se ci si mettono di picca, non muoiono neanche se li ammazzano».

(articolo di Alberto Improda, su Linkiesta del 11/09/2020)
 
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