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Piccole citta'. Servono ancora a qualche cosa?
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Articolo di Redazione
12 gennaio 2018 13:18
 
 Le piccole citta’ servono ancora a qualche cosa? Questa terribile domanda e’ stata posta da Paul Krugman, Premio Nobel e giornalista di punta del New York Times. Ed ha fatto seguire un ragionamento che non possiamo ignorare, non foss’altro per combatterne meglio le implicazioni.
L’articolo in questione e’ una sorta di commento ad un articolo di Emily Badger sullo stesso quotidiano, sull’evoluzione delle piccole citta’ in Usa. Prendendo, tra gli altri, l’esempio di San Francisco, la nostra giornalista mostra come lo sviluppo economico della citta’, prima dell’emergere della Silicon Valley, si e’ appoggiato sulla costruzione di navi militari. Per farlo, San Francisco lavorava insieme ad altre citta’ un po’ ovunque nel resto del Paese, e questo ha dato un buon contributo alla sua prosperita’.
L’economia del sapere e le relazioni tra centri urbani
Ma oggi Google e Facebook sono utilizzati dalla maggior parte degli abitanti del Paese, senza che questo sviluppo dia loro un profitto diretto. Apple, che fabbrica degli oggetti, li fa produrre altrove. Il risultato e’ dunque lo stesso. E San Francisco, come New York, ha piu’ bisogno di relazioni con Shenzen e Londra che con Tacoma nello Stato di Washington o Detroit nel Michigan.
Dopo essersi alimentata di relazioni con delle piccole citta’ dell’interno, essa riesce a prosperare di piu’ con quelle citta’ che sono meglio connesse ad altre citta’ globali che sono un po’ ovunque sul Pianeta, dice il sociologo Saskia Sassen.
E tutto indica che non c’e’ una possibilita’ di tornare indietro, nella misura in cui, come lo spiega un membro del consiglio di Chicago sugli affari globali, “l’economia che ha sostenuto le relazioni precedenti, e’ scomparsa, e non da’ nessun segnale di tornare indietro”.
A cosa servono le citta’, in effetti? Questo ha a che fare con quello che viene chiamato “effetto agglomerazione", cioe’ le economia di trasporto che si realizzano quando le imprese di produzione industriale sono vicine le une alle altre. La riduzione di questi costi sui lunghi tragitti, incide meno sulle scelte dei luoghi di produzione delle mercanzie.
Nelle citta’ che funzionano su un’economia della conoscenza, “il sapere si costruisce su cio’ che apprendiamo dalle persone che ci circondano”, spiega Edouard Glaser, professore ad Harvard e autore del libro “Il Trionfo della citta’”. Cio’ che le citta’ contribuiscono ancora a ridurre, e’ il tempo che occorre perche’ le persone si spostino, un tempo che diventa sempre piu’ costoso quando questi ultimi diventano piu’ produttivi: “Anche se i cambiamenti nella tecnologia dei trasporti permettono di mettere la produzione dei beni ovunque nel mondo, ci sara’ sempre un vantaggio per i cluster che minimizzano i costi dello spostamento delle persone attraverso lo spazio”.
L’effetto agglomerante e’ quindi piu’ forte nell’economia del sapere, ed e’ questo che spiega l’importanza delle grandi urbanizzazioni. Piu’ una metropoli e' direttamente connessa via aereo ad altre metropoli nel mondo, piu’ essa si sviluppa e diventa piu’ grande. Un ragionamento che si applica alla crescita delle citta’ nella maggior parte dei Paesi dove vige un’economia essenzialmente basata sul sapere.
Le piccole citta’ perdono di potere
Torniamo intanto alle piccole citta’. Quale che sia la dimensione considerata (questa varia a seconda dei Paesi), esse non hanno benefici nel cercare di trarre vantaggio dal dinamismo delle metropoli. Il problema e’ solo economico. Secondo Greg Spencer, un ricercatore dell’Universita’ di Toronto citato da Emily Badger, “non solo esse perdono il loro potere, ma perdono anche le loro connessioni ai centri di potere”, che sono le metropoli.
Niente di tutto questo e’ rassicurante, ma e’ l’inizio di una spiegazione che sembra logica. Non cosi’ velocemente, dice Krugman, che precisa come le idee che lui prospetta “sono diverse da quelle di Badger ma non necessariamente il contrario”. Per lui, le citta’ hanno cominciato a giocare un ruolo importante nell’economia agricola diventando un punto di incontro per i vari agricoltori che prima erano sparsi.
“Processo aleatorio”
Il ruolo industriale che alcune piccole citta' hanno potuto giocare in seguito e’ spesso una coincidenza. Anche Rochester, nello Stato di New York, ha cominciato a svilupparsi come un vivaio approfittando delle vie d’acqua della regione. Se essa e’ diventata la sede centrale di Kodak e poi di Xerox, questo lo deve ad un immigrato tedesco che si e’ li’ insediato nel 1853 per fabbricarvi dei monocoli, trasformandola anche in un luogo dove si trovano competenze utili nel settore ottico.
In effetti, “se si considerano le distanze, ha senso valutare il destino delle città come un processo casuale di vittorie e sconfitte, in cui le piccole città hanno una probabilità relativamente alta di essere piu’ penalizzate”. Cosa vuol dire questo? Che secondo la teoria dei giochi, un giocatore che dispone di un numero infinito di gettoni (come una piccola citta’ dispone di un numero limitato di risorse) e giochera’ ovviamente contro un altro che dispone di riserve senza limiti (o, in ogni caso, molto piu’ grandi, come una metropoli globale) e’ sicuro che finira’ rovinato.
“Contingenza storica”
“Nell’economia moderna, che si e’ distaccata dal territorio, ogni piccola citta’ particolare non esiste se non grazie ad una contingenza storica, che perde presto o tardi la sua specificita’”. Una evoluzione del genere dipende poco dalla globalizzazione, che non ha fatto altro che accelerare la progressione. Tutto il problema e’ che questa “contingenza storica” e’ fatta di molteplici piccole storie umane, di identita’ territoriale, di tessuto sociale infinitamente annidato. Krugman e’ ben consapevole -e si inserisce lui stesso nell’ambito del liberalismo sociale e moderno- dei problemi che questo pone: “Ci sono senza dubbio dei costi sociali impliciti nell’implosione delle piccole citta’, cosi' che c’e’ un interesse per le politiche di sviluppo regionale che cercano di preservare la loro redditivita’. Ma questa e’ una lotta difficile”.
Un doppio dramma sociale
L’urbanizzazione crescente e accelerata ci pone due enormi problemi sociali: essa leva alle piccole citta’ una buona parte della loro ragion d’essere e delle loro risorse maggiori, e allo stesso tempo crea delle disparita’ sociali nel loro stesso seno (e le rende piu’ percepibili).
Le piccole citta’ non hanno piu’, secondo gli studi menzionati da Emily Badger e secondo il ragionamento di Paul Krugman, ragion d’essere, economicamente parlando. E’ senza dubbio questo che ci fa capire se vogliamo preservare cio’ che esse rappresentano in termini di qualita’ della vita. In un video pubblicato dal quotidiano Le Monde, Michel Lussault, direttore de l’Ecole urbaine de Lyon, e Nadine Cattan, ricercatrice presso il CNRS, mostrano che le citta’ di media taglia possono avere un futuro se sviluppano dei progetti propri e se sono in grado di intraprendere nuovi tipi di relazioni con le metropoli.
Esse possono quindi “inventarsi un futuro”. Per questo, non sono tenute ad agire solamente in funzione di cio’ che dicono gli economisti. Tuttavia, non possono ignorare la logica attuale se vogliono avere la possibilita’ di risolvere i loro problemi e continuare a vivere veramente.

(articolo di Francis Pisani, pubblicato sul quotidiano le Monde del 12/01/2018)
 
 
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