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Localismo alimentare, fenomeno di élite
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Articolo di Redazione
6 luglio 2022 9:46
 
 Molto si è parlato di alimenti a Kilometro Zero, Filiera Corta e di cibi locali, tanto che in America per chi mangia locale è stato coniato il termine di locavoro o localivoro.
Oggi in Italia vi è anche una legge, la legge 17 maggio 2022 n. 61 Norme per la valorizzazione e la promozione dei prodotti agricoli e alimentari a chilometro zero e di quelli provenienti da filiera corta, vigente al 26-6-2022. La legge precisa che sono considerati a Km Zero gli alimenti prodotti o pescati nel raggio massimo di settanta chilometri o provenienti dalla stessa provincia e nella Filiera Corta gli alimenti devono arrivare al consumatore al massimo attraverso un solo intermediario. I prodotti così definiti potranno avere un logo e particolari spazi di vendita.
Scopo della legge è premiare le politiche trasparenti e sostenibili che intendono valorizzare e promuovere i nostri territori e i loro prodotti, salvaguardando il consumatore e il suo diritto a essere informato.

Ma quale potrà essere la reale efficacia e soprattutto la dimensione del mercato oggetto della legge?
Domanda non oziosa e che ha indotto Andrea Shea, una giornalista americana, a provare a vivere una settimana come localivora integrale con risultati pubblicati nel maggio 2022 (I tried to eat 100% local food for a week. Here’s what I learned) poi ripresi e diffusi dal MIT Daily del prestigioso Massachusetts Institute of Technology (29 giugno 2022).
Nella sua ricerca la giornalista ha a disposizione centoquindici Dollari US, circa la metà della spesa alimentare settimanale per una famiglia di due persone del Massachusetts, e considera locale il cibo prodotto in un’area molto maggiore di quella italiana (settanta chilometri): diametro di duecento miglia (trecento e ventuno chilometri) considerando che il Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti definisce locale (??) quello che viaggia per meno di 400 miglia (643 chilometri), mentre gli americani localivori hardcore considerano locale quello prodotto non più lontano di 100-150 miglia (170 – 241 chilometri).
Nella sua ricerca la giornalista è costretta a eliminare moltissimi alimenti, ad esempio caffè, avocado, salmone, limoni, noci, barrette proteiche, olio d'oliva e gran parte dei condimenti e prodotti della dispensa (sale, pepe, senape, pasta, riso, aceto) e tanti altri alimenti che anche in parte non sono locali e moltissimi prearati dalle industrie. Per questo la giornalista al quarto giorno si trova in una situazione critica e è costretta a ricorrere all’Eccezione Marco Polo dei localovori che si permettono di acquistare cibi quali il sale, il caffè, l’olio, l’aceto e le spezie che Marco Polo avrebbe potuto portare a casa dalla Cina su un’imbarcazione non refrigerata. La giornalista termina la sua esperienza concludendo che mangiare locale eco-consapevole è molto più difficile di quanto si possa pensare e, aggiungiamo noi, di quanto si può pensare, a meno di non applicare l’Eccezione Marco Polo e cioè inserire nella propria alimentazione solo qualche alimento locale.

Con la nuova legge in Italia l'alimento locale e la filiera corta identificano una politica economica o commerciale che predilige l’alimento prodotto entro un territorio circoscritto e con una distribuzione diretta secondo un concetto “dal produttore al consumatore” in contrapposizione all'alimento globale. Come si vede i due concetti di chilometro zero e di filiera corta non fanno alcun riferimento alla sicurezza e alla qualità dell’alimento, se non forse alla sua freschezza e soprattutto, salvo alcuni ortaggi, hanno una grande limitazione di applicazione in particolare nelle città di grandi e medie dimensioni, come dimostra anche l’esperienza della giornalista americana. Inoltre i termini locale, localismo e quindi anche di localivoro non devono essere fraintesi come sinonimo di qualità e hanno solo significato di un cibo prodotto vicino alla nostra residenza, nei dintorni più o meno ampi della nostra città, grande o piccola che sia.

Fino a metà del secolo scorso gran parte se non la totalità dell’alimentazione italiana era di tipo locale, quindi anche stagionale, quando imperversavano fame, denutrizione, malattie da carenze proteiche e vitaminiche in una popolazione di bassa statura e con corta vita media.
Con l’arrivo delle ferrovie e di efficienti trasporti su strada, dell’industrializzazione e di una grande distribuzione il mercato alimentare è cambiato e adesso possiamo trovare sulla nostra tavola cibi che in tempi brevissimi arrivano da lontano e anche esotici (come nel passato erano la melanzana, patata e pomodoro), prodotti extrastagionali e soprattutto prodotti in ambienti pregiati anche se distanti di qualche centinaio di chilometri. Il superamento del localismo alimentare è avvenuto per molte ragioni portando notevoli vantaggi ai consumatori e ai produttori.

Ora il localismo alimentare è divenuto un fenomeno di élite in una falsa percezione che fa ritenere migliore il cibo solo perché locale o più nutriente e sano perché non proviene dall’industria conserviera o da altre regioni o paesi. Come fenomeno di élite il localismo alimentare, con un’ampia applicazione dell’Eccezione di Marco Polo, può essere utile a un limitato numero dei piccoli produttori di vegetali, animali e di pescatori e a più o meno grandi chef, ma certamente non risolve i problemi della fame nel mondo e del cambiamento climatico. Nello stesso modo non risolve questi problemi l’orto famigliare urbano come quello dei tempi di guerra, oggi utile come svago distensivo e causticamente denominato “il sistema più costoso per mangiare gratis”.

(Giovanni Ballarini su GeorgofiliInfo del 06/07/2022)
 
 
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