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Il carcere in Italia. Dei relitti e delle pene
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Articolo di Redazione
22 ottobre 2020 9:16
 
 Spesso sfugge – anche agli operatori del settore – quanto sia nevralgica per il futuro del nostro Paese la questione carceraria. Non occorre scomodare Voltaire o Brecht per dover prendere atto che le carceri del nostro Paese non sono degne di un Paese civile e che, più in generale sui temi della giustizia, l’Italia non è stata capace di far proprio il pensiero di uno dei suoi figli più illustri, Cesare Beccaria. Tanto da far dire, a un luminare del diritto, come il prof. Giacomo Delitala, che «l’Italia è tanto culla del diritto che il diritto si è addormentato».
Stefano Natoli con acutezza rilegge il titolo della celebre opera del grande illuminista milanese e parla «dei relitti e delle pene». Perché i protagonisti di questa riflessione sono proprio i relitti, gli ultimi, le persone ai margini della società; i tanti che entrano nel cerchio, spesso infernale, delle nostre carceri e si trovano a vivere – alcuni a scontare la pena, altri in carcerazione preveniva, e quindi presunti innocenti – in condizioni spesso disumane e degradanti anche, ma non solo, per il sovraffollamento carcerario, di gran lunga superiore alla capienza regolamentare.

Tanti sono i motivi di una situazione che ha visto il nostro Paese essere condannato in più occasioni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti «disumani e degradanti». Il principale, però, è – e continua ad essere – la visione predominante, non solo del legislatore ma anche dei nostri concittadini, che considerano la “carcerizzazione” maestra per l’espiazione della pena.

Così non è, come spiega l’autore, partendo dalla realtà quotidiana e dimostrando che la doverosa tutela della collettività, le esigenze di difesa sociale e l’equa punizione di chi ha leso diritti altrui ben può conciliarsi con il senso di umanità e con pene non vendicative e non carcerarie. Riflessione, quest’ultima, da decenni confermata dal fatto che chi sconta l’intera pena in carcere ha un tasso di recidiva di gran lunga maggiore di chi usufruisce pene alternative a quelle carcerarie.

Natoli il mondo delle carceri lo conosce bene in quanto volontario in un istituto penitenziario milanese; è impegnato quotidianamente per aiutare «chi ha sbagliato» a ripensare ai propri errori e a trovare le energie per ripartire.

Da acuto giornalista mette in fila i tanti errori, le omissioni, le visioni antiquate che ancora oggi sono “pensiero dominante” di chi ritiene il carcere quale unica via di redenzione dimenticando che sia la nostra Costituzione, sia le Convenzioni internazionali sottoscritte e ratificate dal nostro paese fanno propria la presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva e la finalità anche rieducativa della pena.

Un contrasto tra princìpi fondanti della nostra democrazia e realtà quotidiana, dentro e fuori dalle carceri, che si è reso ancora più evidente e stridente in occasione dell’emergenza Coronavirus.

I media si sono rianimati parlando delle sommosse, ma non è stata colta l’occasione per una riflessione sul carcere e la sua funzione. Sono l’indifferenza e la disinformazione il grande male che affianca la condizione carceraria e fa bene l’autore a rimarcarlo. Poco o nulla è cambiato dal «cimitero dei vivi» denunciato a suo tempo da Turati e ripreso, a quarant’anni di distanza, da Piero Calamandrei.
La visione di Aldo Moro, fautore di un diritto penale dal volto umano, ha visto una possibile “primavera” con la riforma del 1986 promossa da Mario Gozzini, ma solo dopo pochi anni il carcere ha ritrovato la sua sinistra centralità.

La finalità rieducativa della pena, ricordava Aldo Moro, non contrasta, ed è perfettamente compatibile, con quella etico-retributiva: «La pena non è il male per il male ma la limitazione della personalità finalizzata a una ragione superiore, che è poi la cancellazione del male stesso, l’eliminazione sul piano ideale del male che si è verificato nella vita sociale». Riflessione che lo aveva portato ad essere contrario non solo alla pena di morte, ma anche all’ergastolo, alla «pena senza fine, alla pena che non finirà mai», che «finirà con la tua vita questa pena, psicologicamente incivile e disumana».

La situazione è nota: istituti di pena sovraffollati, abitati da ultimi e da «cittadini in attesa di giudizio». Una vita interna ai penitenziari dura e difficile dove il lavoro – interno o esterno alla struttura carceraria – viene visto più come un premio di buona condotta invece che un necessario strumento per la rieducazione del condannato e il suo reinserimento nella società.

Natoli nella sua analisi mette in fila tutte le storture del sistema tra cui “il fine pena mai”. L’Italia in questo non è da sola rispetto ad altre Nazioni europee, ma un cambiamento di rotta si impone, in particolare dopo alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Come giustamente scrive l’autore le alternative al carcere ci sono e per questo bisogna crederci di più; le sanzioni sostitutive quali ad esempio la libertà controllata, i lavori socialmente utili, la pena pecuniaria sostitutiva hanno dimostrato con il tempo la loro efficacia.

Grazie all’opera infaticabile di volontari, cappellani carcerari, giuristi, operatori del diritto hanno preso avvio importanti cammini volti a favorire la consapevolezza della giustizia riparativa nell’itinerario di reinserimento dei condannati e dell’attenzione alle vittime dei reati e ai loro familiari. La riforma carceraria non basta.

Questo libro potrà contribuire a creare le condizioni per un recupero, sia a livello legislativo, sia nell’applicazione concreta delle norme già esistenti, dello spirito della Legge Gozzini. Non è più procrastinabile una riforma di sistema che veda una robusta opera di depenalizzazione, pene diverse da quella detentive, l’aumento dei riti alternativi con l’obiettivo di favorire una giustizia più celere ed efficiente.

Solo così il nostro Paese potrà tornare a sedersi nel consesso delle grandi Nazioni e delle Patrie del Diritto. Per farlo occorre lasciarsi alle spalle visioni manichee e giustizialiste che ancora oggi dominano all’interno delle stanze dei bottoni. Saggi come quello di Stefano Natoli sono preziosi strumenti per rilanciare un dibattito e per offrire un opportuno quadro d’insieme a chi è chiamato a procedere con riforme non più indifferibili.

(dalla prefazione di Giuliano Pisapia a “Dei relitti e delle pene. Giustizia, giustizialismo, giustiziati. La questione carceraria tra indifferenza e disinformazione”, di Stefano Natoli, Rubbettino, 2020)
 

 
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