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Se la bioetica eccede nell'etica
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Articolo di Grazia Galli
26 giugno 2002 21:36
 
Bioetica, una parola che si e' imposta prepotentemente nella nostra realta' senza quasi ce n'accorgessimo. Pochi sanno cosa significhi realmente, e, a dire il vero, anche tra gli addetti ai lavori, i bioeticisti, non vi e' univocita' nel definirne l'ambito ne' tanto meno il metodo. Se qualcuno volesse provare a districarsi da solo in questo "giovane" ramo dell'albero del pensiero umano, probabilmente avrebbe da fare per i prossimi due decenni. Il settore e' in rutilante espansione, tanto che con un comune motore di ricerca in Internet alla parola bioetica corrispondevano 40.000 pagine pochi mesi fa, ma oggi sono gia' 50.000. Nuovi comitati di bioetica s'instaurano a tutti i livelli istituzionali; citazioni e riferimenti a documenti di bioetica appaiono dovunque, anche nei giornali sportivi. E' comprensibile quindi che, con un senso d'ossequiosa subordinazione, tutti facciano finta di sapere di cosa si stia parlando. Perche' mai qualcuno dovrebbe poi aver qualcosa da ridire sull'istituzione di comitati di bioetica? E che c'entrano gli scienziati?
A questo punto un passo indietro s'impone. Il termine "bioetica" fu coniato nel 1970, ma l'inizio della riflessione "etica" intorno alle applicazioni della medicina va retrodatato almeno di qualche migliaio d'anni, quantomeno all'epoca d'Ippocrate. La "bioetica" moderna si vuole sia pero' in qualche modo "rinata" nel secondo dopo guerra, inizialmente spinta dall'orrore per i crimini commessi nel conflitto, ma ben presto riportata alla realta' quotidiana da un progresso scientifico in continua evoluzione e sempre piu' difficile da comprendere. Nella sua fase iniziale il dibattito bioetico ha visto la partecipazione entusiasta oltre che di giuristi e filosofi, anche di medici e ricercatori, speranzosi di riuscire ad uscire dal chiuso del laboratorio e approdare ad una societa' in crescita che li aiutasse a darsi garanzie di trasparenza, possibilita' di discussione, regole certe e condivise nell'operare. Ben presto pero' e' sorto un "piccolo" problema di metodo, o meglio la mancanza di un metodo comune cui rapportarsi, che permettesse di definire gli ambiti di discussione e di competenza. Si sa che alla chiarezza del metodo ed alla definizione dell'ambito d'indagine, gli scienziati, e la scienza, sono legati indissolubilmente da un patto ontologico. Non stupisce quindi che in molti si siano ritirati da un dibattito in cui la maggioranza si dichiarava, e si dichiara tutt'ora, allergica a metodi o definizioni e piu' propensa a rapportarsi alle categorie della metafisica. Del resto, il giochetto di ricorrere alla categoria dell'Assoluto se ha sempre fornito pochi risultati in ambito scientifico, ha spesso prodotto vere e proprie tragedie in campo sociale. Sicuri di lavorare per il progresso dell'umanita', i ricercatori si sono in gran parte rinchiusi nelle loro stanze, sdegnando l'esperimento piu' importante: la comunicazione. Purtroppo pero', cosi' facendo hanno lasciato campo libero ai fautori dell'assolutismo e inferto alla scienza un colpo che puo' esserle mortale. La resa e' avvenuta proprio laddove il metodo scientifico avrebbe potuto, e dovuto dare il suo contributo maggiore all'umanita': accettare la razionalita' come intrinseca qualita' dell'essere umano, dimostrare il valore del confronto con il possibile al posto delle certezze a priori, la ricerca di soluzione ai nuovi problemi piuttosto che la loro rimozione, la capacita' di avvalersi del disordine come fonte di vitalita' piuttosto che la ricerca dell'ordine nella negazione della vita. Temi per i quali, si evidenzia piu' che mai la presenza di una lacerazione profonda tra cultura scientifica e umanistica. Lacerazione non sanata, ma piuttosto aggravata, dal fiorire di nuove scoperte e dalle loro ricadute tecnologiche. Al punto che, di fronte ad una possibile riabilitazione del sempiterno nemico capitalista, scienziati e tecnologi sono i candidati piu' quotati a ereditarne la funzione di capro espiatorio di tutti i mali del mondo. La sfida e' impari, e la comunita' scientifica mondiale sembra avviarsi a raccoglierla. Non solo in difesa della scienza, ma anche di quel pensiero liberale che vuole che lo Stato resti laico.
E in Italia? Come dimostra la qualita' del dibattito italiano su fecondazione assistita, clonazione e ricerca sugli embrioni, la situazione sembra a dir poco disperata. A supplire il compito dei "grandi assenti" non sembra bastare piu' il pur valido contributo dei fautori della "bioetica laica", stretti nella morsa di due contrapposti schieramenti. Da una parte i vecchi nemici, che rifiutando la razionalita' come intrinseca qualita' umana della contrapposizione tra corpo e spirito, loro si', ne han fatto un business. La loro azione e' subdola e potente. Senza farsi troppo notare, negli ultimi anni hanno prodotto una letteratura "scientifica" parallela, piena di noterelle teologiche e metafisiche nascoste nelle pieghe dei resoconti sperimentali, che aggirano cosi', nella promiscuita' coi secondi, la non dimostrabilita' delle prime. Dall'altra parte ci sono invece gli "scienziati pentiti", che, balzati alle cronache per qualche meritevole scoperta, l'hanno poi rapinata per ammantare d'autorevolezza le proprie convinzioni personali. Veloci come lepri a raggiungere i seggi istituzionali -e infatti, i comitati di bioetica proliferano come conigli- tengono poi in scacco i ricercatori italiani, che nulla potendo senza finanziamenti pubblici, pigolano si' per la fuga dei cervelli e la mancanza di fondi, ma in ossequio a Darwin, si adattano come e piu' che possono alle nicchie conquistate. Ma se errare e' umano, perseverare e' diabolico, soprattutto per chi piu' di altri e' titolato a trar risorse dagli errori compiuti. Il futuro della ricerca italiana, prima che nelle nanotecnologie, e' ora nelle piazze, nella condivisione senza filtri e mediazioni di speranze e delusioni, riprovando, con il senso di responsabilita' che gli e' proprio, a cercare un metodo per comunicare con la gente.
 
 
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