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Le radici della violenza umana entrano di peso nell'albero dell'evoluzione. Studio
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Articolo di Redazione
2 ottobre 2016 16:50
 

 Due secoli e mezzo che questi due si affrontano. E grazie a discepoli contrapposti, le loro teorie sull'origine della violenza umana lacerano filosofi e scienziati. Thomas Hobbes contro Jean-Jacques Rousseau, l'“homo homini lupus” contro il “buon selvaggio”, l'umano intrinsecamente aggressivo verso il proprio simile contro l'individuo intriso di innocenza, spinto verso il male da una societa' corruttrice. In uno studio pubblicato lo scorso 28 settembre dalla rivista Nature, un'équipe spagnola fa a fette il dibattito: la violenza letale umana entra di peso con le sue radici nella teoria dell'evoluzione. In altri termini, se l'uomo “discende dalla scimmia”, altrettanto accade per le sue tendenze assassine.
Per arrivare a questa constatazione senza dubbi, José Maria Gomez, ecologa alla stazione sperimentale delle zone aride di Almeria, e i suoi colleghi di altre tre universita' spagnole si sono impegnati in un incredibile lavoro di accumulo di dati. Per due anni, hanno analizzato cinquanta anni di letteratura scientifica: 3.500 articoli che analizzano la violenza tra membri di una stessa specie presso i mammiferi, e 1.000 articoli sulle cause della mortatlita' tra gli umani.
Per questi ultimi, hanno fatto riferimento, per loro fonti, alle analisi bio-archeologiche o paleontologiche, ai rilievi etnografici, ai bilanci di autopsie o ai registri sulle cause dei decessi (a partire dal XVII secolo). Ed hanno messo tutto su dei computer. Sulle 1.024 specie di mammiferi studiati, il 40% li hanno completamente sviscerati. “Questa e' stata la nostra piu' grande sorpresa -ammette José Maria Gomez-. La violenza letale non e' concentrata in gruppi considerati violenti a priori, come i carnivori. Essa si trova in modo importante anche presso i rinoceronti, le marmotte, i cavalli...”.
“Lo studio e' formidabile”
Gli scienziati spagnoli fanno una media: l'aggressione interspecista costituisce lo 0,3% delle cause di mortalita' nell'insieme dei mammiferi. Essa non e' “frequente ma diffusa”. Ma andando famiglia per famiglia che l'analisi si arricchisce. “Io non ho mai visto un lavoro cosi' dettagliato sulla violenza tra i mammiferi”, dice Michel Raymond, direttore della ricerca al CNRS e responsabile dell'équipe di biologia evolutiva umana dell'Universita' di Montpellier.
Lo studio dimostra che la posizione nell'albero filogenetico delle specie spiega fortemente la tendenza ad uccidere i propri congeneri. Bestie, orsidi, roditori: nessuna famiglia si distingue in modo particolare. Con una menzione particolare per i primati -nostri cugini e nostri antenati, bisogna ricordarlo?- presso i quali il peso della violenza letale si assesta al 2%. La ragione? “Lo studio e' formidabile ma non spiega le cause di questa concentrazione -sottolinea Mike Wilson, antropologo all'Universita' del Minnesota (Usa)-. Per me e' il largo ricorso all'infanticidio presso i primati”.
L'albero dell'evoluzione delle specie non spiega quindi tutto. La' dove gli scimpanze' si uccidono per piacere, i bonobo, loro parenti vicini, presentano dei metodi molto piu' pacifici. Forse non vediamo la preponderanza delle femmine presso questi ultimi. I ricercatori hanno, piu' complessivamente, cercato di isolare alcune cause. Risultato: piu' una specie e' sociale e territorializzata, piu' la violenza letale vi si esprime.
I discepoli di Rousseau vi trovano una piccola consolazione. Perche', per il resto, l'esame di 600 popolazioni umane attraverso il tempo e lo spazio distrugge allegramente il mito della nostra innocenza originale.
I rilievi archeologici confermano in effetti che la pieta' non soffocava ne' l'uomo sapiens neo l'uomo di Neandertal: “Per questi tempi antichi, i risultati sono anche conformi col livello di violenza atteso, tenendo conto della posizione dell'uomo nell'albero filogenetico”, commenta José Maria Gomez. “L'uomo, nel neolitico, non ha atteso l'accumulo delle ricchezze per essere violento -sottolinea l'archeologo Jean Guilaine, professore onorario al Collège de France e autore del 'Sentiero della guerra' (Seuil 2001). Si e' dimostrato che i cacciatori-raccoglitori si affrontavano anch'essi”.
“Dati consistenti”
E' vero che la situazione si rovina ancora in seguito. L'eta' del ferro in Europa e Asia (a partire dal -1100) e il periodo detto “formativo” nel “Nuovo Mondo” (circa -1000) conoscevano una spinta importante di violenza letale, nettamente al di sopra delle previsioni evolutive che dovrebbero situarla al medesimo livello di quello delle grandi scimmie. E, facendo riferimento ai dati presentati dall'articolo, questa dura fino alla fine del Medioevo. Tanto da alimentare la tesi dello psicologo americano Steven Pinker: nel 2011, in un libro che ebbe successo in Usa, aveva brillantemente messo in evidenza il declino della violenza dopo il periodo moderno.
Alcuni non rinunciano a mettere in discussione la debolezza dei dati antichi. Si puo' determinare una regola statistica di una serie di tombe del neolitico o di un cimitero medievale? Certamente no. Ma di centinaia di cimiteri, ripartiti in molteplici punti del continente, accompagnati talvolta da testimonianze scritte o da registri: la questione parrebbe nettamente piu' seria. “Questa parte e' evidentemente la piu' fragile, e sara' controversa -dice Mike Wilson. Ma malgrado tutto hanno dato dimostrazione di una grande prudenza selezionando dati di una certa consistenza”.
Lo studio di Nature va ancora piu' lontano. Esso classifica i dati umani in funzione del tipo di societa' di cui portano testimonianza. Sembrerebbe in questo caso che le organizzazioni tribali o claniche manifestino un degrado di violenza nettamente piu' elevato rispetto alle societa' statuali.
Questa volta, l'articolo dovrebbe risvegliare non piu' la lotta tra due filosofi morti, ma la guerra tra due famiglie rivali di antropologi. Per esempio, i lavori dell'americano Napoleon Chagnon sull'estrema violenza degli Yanomami dell'Amazzonia restano ancora oggi molto controversi. La pubblicazione di Nature non passera' inosservata in tutto questo.
Per il primatologo Elise Huchard, questi risultati fanno ricordare che “qualunque sia l'approccio utilizzato per comprendere e spiegare l'intensita' e i motivi della nostra violenza, non bisogna dimenticare che l'uomo e' un mammifero, perche' questo semplice fatto biologico contribuisce a spiegare il nostro comportamento sociale”.
Un mammifero ne' piu' ne' meno violento come gli altri. Semplicemente e particolarmente flessibile nella sua aggressivita', perche' particolarmente diverso nella propria organizzazione sociale. E piu' tranquillo che mai, cio' che sottolinea l'antropologo Mike Wilson. “Nel momento in cui Donald Trump ci martella sul fatto che la societa' e' violenta, fa bene alla salute pubblica ricordare che si vive meglio in una citta' americana che nell'antico Far West”.

(articolo di Nathaniel Herzberg , pubblicato sul quotidiano Le Monde del 02/10/2016) 

 
 
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